L’attivista per i diritti umani e di genere Patrick Zaki resta nel carcere di Tora, a Il Cairo. La sua detenzione cautelare, infatti, è confermata fino alla prossima udienza fissata per il 21 marzo 2020. Questa la decisione presa dalla Procura della Sicurezza dello Stato d’Egitto (Egypt’s Supreme State Security Prosecution, SSSP) durante l’ultima udienza tenutasi il 7 marzo scorso e alla quale non ha potuto partecipare nessuna delle ambasciate presenti, comprese quella italiana e quella dell’Unione Europea che avrebbero voluto assistervi in virtù del meccanismo di monitoraggio processuale. L’Italia, in particolare, è direttamente coinvolta nel caso perché Patrick è uno studente dell’Università di Bologna Alma Mater Studiorum, dove stava frequentando il master Gemma.
Il caso non è di vostra competenza è la giustificazione addotta per impedire l’accesso in aula, soltanto l’ultima irregolarità di una vicenda che ha avuto inizio il 7 febbraio scorso, quando Patrick è stato arrestato all’aeroporto internazionale de Il Cairo, con le accuse di sedizione su Facebook, oltre che di istigazione alla violenza e crimini terroristici. In base a quanto riportato dai suoi legali all’ANSA, l’accusa si riferisce ad alcuni post precedenti al 23 settembre pubblicati sul suo account personale che, però, non sono stati mostrati agli avvocati, nonostante le reiterate richieste. Questi, infatti, negano che possa trattarsi del profilo di Patrick e sostengono sia un fake, con tre nomi anziché il solo nome e cognome come quello ufficiale del ragazzo.
Quando è stato arrestato, Patrick stava rientrando da Bologna. Ha poi raccontato in udienza di aver subito violenze e di essere stato interrogato per almeno sei ore in aeroporto, oltre ad aver trascorso illegalmente un’intera giornata in detenzione sotto la custodia della Sicurezza di Stato. In realtà, il verbale di fermo del ragazzo riporta che sia stato arrestato l’8 febbraio a Mansoura, sua città natale. Gli avvocati Hoda Nasrallah e Wael Ghaly hanno richiesto più volte di mostrare i filmati di videosorveglianza dell’aeroporto per dimostrare non solo l’infondatezza del verbale d’arresto, ma anche le numerose irregolarità procedurali e le ingiustizie del procedimento in corso. Ma anche a tale richiesta non è seguito alcuno sviluppo.
Le autorità egiziane hanno assunto fin dai primi giorni un atteggiamento intimidatorio e le istituzioni mediatiche hanno dipinto la solidarietà internazionale per Zaki come un’interferenza esterna negli affari interni egiziani. La campagna di sostegno Patrick libero, attraverso cui gli amici e i familiari riportano sui social network gli aggiornamenti sul caso del ricercatore, invece, è stata additata come un movimento sospetto.
Intanto, a pochi giorni dall’ultima udienza, Patrick è stato trasferito nel carcere di Tora, tristemente noto per le violazioni dei diritti e le inumane condizioni dei detenuti, come denunciato dal Cairo Institute for Human Rights (CIHR), un’ONG fondata nel 1993 che ha lo scopo di monitorare lo stato dei diritti in Egitto e in vari Paesi arabi, e dal Forum Egiziano per i Diritti Umani. Come dichiarato da Leslie Piquemal, responsabile per le campagne di advocacy per il CIHR, tutte le prigioni in Egitto sono pericolose, ma questa lo è particolarmente per le violenze e i soprusi cui i reclusi, privati di qualsiasi cura medica e costretti a dormire sul pavimento, sarebbero sottoposti. In particolare, vi si troverebbero i prigionieri di coscienza, detenuti nel braccio di massima sicurezza denominato Scorpion. In questo carcere, secondo quanto accertato dalle Nazioni Unite, vi sono state 917 morti di detenuti tra il 2014 e il 2018, per non aver ricevuto cure mediche – negate anche a chi soffre di patologie croniche – o per le torture subite dai carcerieri.
Il trasferimento di Patrick a Tora, che segue quelli delle scorse settimane dalla stazione di polizia di Mansoura a quella di Talkha fino ad arrivare al carcere pubblico di Mansoura, è uno sviluppo preoccupante poiché esclude la risoluzione del caso nel breve periodo, rendendolo di competenza della Procura Suprema di Sicurezza dello Stato. Si tratta, infatti, della Procura che si occupa di perseguire tutte le attività che rappresentano un pericolo per la sicurezza nazionale. Altro non è che uno strumento di repressione al servizio del Presidente Abdel Fattah Al-Sisi – come emerge anche dal rapporto di Amnesty International dello scorso novembre – attraverso cui, sotto la copertura dell’antiterrorismo, si perseguono tutte le manifestazioni di dissenso, anche quelle pacifiche e individuali. Inoltre, la SSSP lavora in collaborazione con i servizi segreti egiziani che, attraverso soprusi e violenze, eseguono i mandati di arresto della Procura, oltre a indagare anche in maniera indipendente e trasmettere fascicoli su potenziali bersagli da colpire.
Il rischio è che si continui a confermare la detenzione cautelare che, come sostenuto dai legali, non ha alcun fondamento in questo momento poiché non c’è alcuna prova contro Patrick che lui potrebbe in qualche modo manomettere. Inoltre, la sua residenza è comprovata e definita, dunque la necessità della preventiva carcerazione è inesistente. Purtroppo, come sottolineato da Kareem Armuditis – membro del Forum Egiziano per i Diritti Umani e attivista – questa è una strategia utilizzata molto spesso dal regime egiziano: la reiterata detenzione preventiva può durare fino a due anni. Accade poi che, una volta spirato il termine senza aver ricevuto alcun processo, il trucco è quello di essere arrestati e accusati di un altro reato, in modo da poter ripetere la procedura della custodia cautelare in un circolo vizioso senza fine. È ciò che è accaduto, ad esempio, ad Abdel Moneim Abouel Fatouh, candidato alle presidenziali con il partito Strong Egypt. Con tale stratagemma il regime si tutela dalle accuse della comunità internazionale, replicando che si tratta di misure cautelari, perseguendo però il suo intento di punire chi manifesta determinate idee e spaventare chiunque voglia opporsi a esso.
I rischi per Patrick in questa fase sono molteplici: al di là della violenza psicologica subita per il rinvio continuo del processo, è prassi che i prigionieri siano torturati e pestati quando vengono trasferiti in grandi penitenziari. Nel carcere di Tora, inoltre, periodicamente i detenuti organizzano scioperi della fame per ribellarsi alle condizioni in cui vivono e la polizia reagisce reprimendoli, con la possibilità che Zaki resti coinvolto. Oltretutto, l’avanzata del coronavirus potrebbe risultare fatale per il ragazzo, che è asmatico e quindi corre un maggiore pericolo in un ambiente sovraffollato in cui non è rispettata alcuna norma igienica.
Non solo la detenzione del giovane attivista appare ingiustificata ma risente chiaramente del clima di terrore che si respira in questi mesi in Egitto, dove gli arresti sono aumentati considerevolmente in seguito alle tensioni createsi tra il regime di Abdel Fattah Al-Sisi e le opposizioni. Il pericolo è che si verifichi una nuova tragedia, come quella che ha coinvolto Giulio Regeni, rispetto alla cui morte la SSSP promette continuamente una collaborazione alla Procura di Roma che però, tra continui depistaggi e poco polso da parte del governo italiano, non ha portato a fare luce sulla morte del ragazzo dopo ben quattro anni.
Anche la famiglia Regeni chiede al governo di intervenire e di farlo con urgenza, ritirando immediatamente l’ambasciatore a Il Cairo. Ma il Ministro degli Esteri Di Maio ha escluso fin da subito questa ipotesi, affermando che la presenza dell’ambasciata è l’unica possibilità di ottenere la verità. La famiglia di Patrick, intanto, è molto preoccupata e chiede di tenere alta l’attenzione dal punto di vista internazionale, anche perché teme che la Procura voglia ricostruire fittiziamente un legame tra Zaki e Regeni, come è emerso anche dall’interrogatorio cui è stato sottoposto Patrick, al quale è stato chiesto di Giulio più volte.
Ciò che è chiaro è che l’Italia deve prendere una posizione decisa per mettere fine a questa reiterata violazione dei diritti, anziché badare ai propri rapporti diplomatici e agli interessi economici. In questo periodo il pericolo che l’ingiustizia che Patrick sta vivendo passi inosservata è ancora maggiore dato lo stato di emergenza in cui il nostro Paese versa, ma le idee e i valori di Zaki non possono costargli la vita. Bisogna agire e, nonostante le criticità, bisogna farlo subito.