Era il 1972 quando una giovane Mina cantava Parole, parole, inconsapevole che quel suo ritornello avrebbe accompagnato non soltanto i racconti di amori romantici, ma ogni altra espressione di qualunquismo, ancor più incisivo se associato alla politica. Bollare – in sostanza – ogni iniziativa istituzionale come inefficace, o peggio vuota, inconcludente, è il più classico dei cliché, eppure, quando si tratta di analizzare le promesse dei partiti in campagna elettorale, a scavare negli stereotipi non si finisce poi tanto lontani dalla realtà.
Senza scendere troppo a fondo nella memoria politica del nostro Paese, e dando un’occhiata soltanto ai protagonisti dell’ultima legislatura, si può notare come le iniziative su base economica – le più efficaci quando c’è da affermarsi alle urne – abbiano spesso prodotto pochi benefici e, al contrario, tanti danni al sistema Italia. Andiamo con ordine.
Quella del 2018 è la propaganda dominata dal MoVimento 5 Stelle e il suo cavallo di battaglia, il Reddito di Cittadinanza. Risultato: il 34% degli aventi diritto al voto offre fiducia ai grillini che, come promesso, migliorano la misura previdenziale introdotta da Renzi con il Reddito di Inclusione e regalano agli italiani il tanto atteso sostegno a contrasto della povertà.
Tocca, dunque, a Matteo Salvini provare a tenere il passo dell’allora alleato di governo. Nasce Quota 100 e viene proposto un condono per le cartelle esattoriali che il Paese ancora aspetta di riscuotere. Promesse talmente importanti che si dimostrano presto insostenibili, così la gente, insoddisfatta, guarda al prossimo venditore. Il più affidabile – allo stato attuale – sembra rispondere al nome di Giorgia Meloni (nel frattempo impegnata in un’opera di restyling della propria verve sovranista, perché una cosa è – come questo articolo vuole dimostrare – professarsi nudi e crudi all’elettorato, un’altra presentarsi ai tavoli di chi comanda davvero).
Qual è, dunque, il criterio dietro le promesse che i politici effettuano in periodo di campagna elettorale? Probabilmente ispirati dai sondaggi, e influenzati dalle discussioni in voga tra i social network, i partiti promettono ciò che gli italiani vogliono, nulla di più facile che vestirsi di rosso, indossare la barba e volare sui tetti nel corso di una sola notte trainati da renne. Peccato, però, che al mattino successivo la magia sia già terminata e il solo che sembra aver fatto visita alle case dei cittadini sia il cattivissimo Grinch.
L’unica promessa concreta – e tremendamente utile – sarebbe una seria e feroce lotta all’evasione fiscale, altro che condoni e bonus economici. In Italia, soltanto la metà dei cittadini dichiara almeno 1 euro all’Agenzia delle Entrate, motivo per cui un’altra metà vive grazie alle tasse versate da qualcun altro. Di questi, il 57% (dunque poco più di un quarto della popolazione) dichiara redditi fino a 20mila euro, e versa allo Stato una Irpef di 14.7 miliardi, pari all’8.35% del totale delle imposte (431 euro a testa l’anno), una miseria.
Tradotto, i servizi del settore pubblico italiano costano molto di più di quanto lo Stato riesca a incassare, a fronte di un’evasione fiscale che ha raggiunto la stima di 80 miliardi l’anno. Altro che nuovi condoni come millantato da Matteo Salvini in ogni apparizione televisiva, la finanza italiana deve dimostrarsi in grado di reperire tutte le entrate di cui non riesce a beneficiare. La sola sanità pubblica costa all’erario circa 50 miliardi l’anno.
Per troppo tempo i politici hanno basato le loro promesse impossibili (parole, parole) facendo leva sulla povertà degli italiani. Un recente articolo del Corriere della Sera, però, racconta come lo stesso popolo che dichiara redditi da fame sia il primo in Europa per possesso di seconde case, automobili e abbonamenti alle pay-tv. Qual è, allora, la vera natura del nostro Paese?
È semplice: chi possiede tanto paga troppo poco. Professionisti, commercianti, artigiani dichiarano soltanto una minima parte di quanto incassano, facendo mancare, così, il corrispettivo delle proprie prestazioni all’erario statale. È un dato di fatto che gli unici sottoposti a tassazione sono i lavoratori dipendenti regolati da contratto, e dunque quella fetta di popolazione di cui sopra, che effettivamente incassa al netto i propri stipendi.
L’Italia non può permettersi misure di assistenzialismo o una riforma delle pensioni non perché non siano giuste o necessarie, ma perché non ha i soldi per poterle sostenere e la politica non muove un dito per andare a reperire quei soldi dalle persone e dalle aziende da cui dovrebbe cercarli. Altro che RdC, Flat Tax, Quota 100, pace fiscale, riduzione delle tasse: il punto non è se queste misure siano giuste o meno, ma come si pensa di sostenerle senza creare ulteriore debito.
La risposta è l’unica che non piace ai partiti, ossia contrastare le lobby del potere (le stesse che, però, tengono a libro paga i leader di casa nostra), imporre una tassazione patrimoniale, lottare contro l’evasione. Così facendo, l’Italia potrebbe incassare fino al doppio dei fondi di quanto non riesca a beneficiare oggi, e allora ogni misura previdenziale, di sgravi fiscali alle imprese e sostegno alle persone indigenti, si potrà programmare con criteri di equità e dignità sociale.
Tutto il resto sono, come Mina cantava, parole, parole.