La nostra classe politica ha un difetto ricorrente di cui non riesce a liberarsi e che continua quotidianamente a condizionarne l’azione: provare a risolvere i problemi giusti nel modo sbagliato. Soprattutto quando si parla di problemi di ordine sociale, di gap di vario tipo, e soprattutto quando si parla di alcune delle categorie meno amate d’Italia: i giovani e le donne. Per ridurre i divari sociali la strategia è sempre la stessa: metterci denaro. Ma destinarlo alle toppe, invece che alla sostituzione dei sistemi difettosi, non ci libera davvero delle questioni scottanti. È più o meno questa la strategia proposta nel testo di legge che ha l’obiettivo di garantire la parità di genere sul lavoro attraverso sgravi fiscali per le aziende che riducono le differenze salariali.
Sia Camera che Senato hanno approvato all’unanimità un provvedimento che, nelle intenzioni, dovrebbe avere l’obiettivo di diminuire quel divario di genere che relega ancora le donne a ruoli di inferiorità professionale rispetto ai colleghi uomini. Ma, come altri recenti provvedimenti di questo tipo, il rimedio sembra essere l’investimento di risorse economiche che non rispondono, tuttavia, alla reale eliminazione delle cause dei suddetti problemi. Il testo unificato intende, infatti, incentivare le aziende a ridurre le differenze di retribuzione attraverso alcuni obblighi e, soprattutto, sgravi fiscali.
Retribuzione, opportunità di crescita e tutela della maternità sono le materie individuate. L’obiettivo non è solo quello di incentivare la presenza femminile sul mercato del lavoro, ma anche impedire alle imprese di fare discriminazioni in base al genere dei propri dipendenti. Per questo motivo, il già esistente obbligo di stilare un rapporto sulla situazione del personale rivolto alle aziende con più di cento lavoratori è stato esteso anche a quelle che ne hanno più di cinquanta. Ma il cuore della legge è un altro.
Vengono messe sotto osservazione anche le decisioni organizzative interne che, in qualche modo, pongono in una situazione di svantaggio alcuni lavoratori rispetto ad altri in funzione del loro sesso. Si fa, per esempio, riferimento all’organizzazione degli orari di impiego o alla quantità di tempo, presupponendo neanche troppo implicitamente la necessità delle donne di occuparsi della famiglia. È chiarito, insomma, che la necessità di lavorare meno ore per dedicarsi al lavoro di cura non debba rientrare tra i parametri che incidono sul livello di retribuzione o sulle opportunità di avanzamento di carriera, richiedendo ai datori di lavoro di dimostrare i trattamenti di parità.
Un provvedimento costruito in questo modo, ovviamente, non risolve il problema alla radice. Poiché, se per esempio il lavoro di cura non fosse totalmente a carico delle donne, non ci sarebbe alcun bisogno di obbligare le aziende a non trattare le lavoratrici in modo diverso rispetto ai lavoratori, perché tra gli uni e gli altri non ci sarebbero, in media, differenze tra le ore di lavoro e le ore da dedicare alla casa, ai figli o alla cura delle persone anziane. Oppure, se i congedi di paternità non fossero così inferiori rispetto a quelli di maternità, un genitore con dieci giorni di congedo parentale non si troverebbe in una posizione lavorativa di vantaggio rispetto all’altro che ha a disposizione sei mesi. Non può dunque essere questa una soluzione, che anzi avalla l’esistenza di una differenza nella ripartizione del lavoro di cura tra uomini e donne.
A questi maldestri tentativi di (non) cambiare le cose, inoltre, si aggiunge l’idea geniale del momento: regalare soldi. Sono infatti previsti degli sgravi fiscali fino a 50mila euro per le imprese che dimostrano di aver messo in atto politiche e provvedimenti per ridurre il divario tra uomini e donne. Per avere accesso a tali agevolazioni, sarà necessario acquisire una certificazione di parità di genere, ottenuta rispettando numerosi requisiti relativi alle opportunità di crescita e alla parità salariale e di mansioni, nonché alla tutela della maternità. Insomma, lo Stato sta dicendo di non essere in grado di tutelare la genitorialità garantendo gli stessi diritti a entrambi i genitori – e, dunque, di assicurare che le donne non siano discriminate solo sulla loro potenziale maternità –, però se le aziende ci riescono autonomamente ottengono un goloso premio. Niente di nuovo, dopotutto.
Perlomeno, il fatto che il provvedimento sia stato approvato all’unanimità dovrebbe in qualche modo rappresentare un buon segno riguardo la buona volontà degli esponenti del nostro governo, che finalmente ricordano che i diritti civili e la parità sono questioni che coinvolgono tutti e dovrebbero essere apartitiche. Eppure – chiamatemi malpensante – mi risulta difficile non credere che, sotto sotto, non ci sia qualcosa che non quadra anche nelle stesse intenzioni. Perché, se è vero che il ricorso alle misure sbagliate è probabilmente frutto dell’incapacità di vedere quanto a fondo il sistema patriarcale agisca sulle nostre vite quotidianamente, la scelta di aiutare le donne non è detto che sia necessariamente legata alla volontà di ridurre il divario di genere.
Dopotutto, che la metà femminile della popolazione rischi di decidere di non lavorare a causa dell’impossibilità di avere successo sul luogo di lavoro non giova a nessuno, né allo Stato né alle imprese, perché se la metà della popolazione non lavora, non produce. E questo è un prezzo che, evidentemente, non ci si può permettere. In fondo, è solo in questo caso che dei diritti delle donne inizia a importare a qualcuno.