Era il 20 gennaio 1927 quando, con un decreto legge, fu minata l’indipendenza delle donne e messo in discussione il valore del loro lavoro. Ancora non potevano votare, perché figuriamoci se avessero potuto detenere alcun potere politico, né erano libere dalla potestà di padri e mariti, ciononostante, quasi un secolo fa, Mussolini volle mettere definitivamente fine alla loro vita al di là del ruolo domestico. Ne dimezzò quindi i salari rispetto agli uomini, in modo che fosse chiaro che il loro lavoro fuori dalle mura di casa non aveva lo stesso valore di quello dei loro mariti, padri, fratelli: la metà della retribuzione che spettava a un uomo era il limite massimo di stipendio che poteva essere corrisposto a una donna. Oggi, quasi cento anni dopo, la parità salariale resta ancora incompiuta e poche cose sono cambiate: in Italia non c’è un limite massimo di salario che relega le donne al ruolo casalingo, ma è davvero tanto diverso se le differenze di stipendio non sono in alcun modo contrastate e persistono in ogni ambito professionale?
Oggi, in media, ogni euro guadagnato da un uomo corrisponde a cinquantasei centesimi per una donna. Non c’è nessuna legge che lo impone, ma non c’è neanche alcuna legge che lo vieti, né alcuna sensibilizzazione culturale che tenti di impedirlo. Lo stipendio medio di un uomo italiano è, infatti, di 31600 euro annui, quello di una donna 17900, sebbene alle donne siano riconosciute tre ore di lavoro giornaliero in più, considerando il lavoro domestico e di cura. Insomma queste ultime lavorano di più e guadagnano – molto – meno. In verità, nessun paese al mondo ha raggiunto la parità salariale e il global gender pay gap prevede di non rimarginarsi nel breve periodo: secondo le stime del World Economy Forum, la disparità politica verrà colmata in 95 anni, quella salariale in 257.
Due secoli e mezzo, dunque, sono ciò che serve perché il lavoro svolto dalle donne abbia lo stesso valore economico di quello svolto dagli uomini. Due secoli in cui però sembra difficile credere che possa essere raggiunta davvero la parità politica, sociale e anche quella familiare. Se il nostro capitalistico mondo gira intorno al denaro, alla produttività, al rendimento, come può una persona che vale economicamente meno essere considerata pari alle altre?
Recentemente, la Regione Lazio ha approvato una legge sulla parità salariale e il sostegno dell’occupazione femminile. È, in effetti, la prima regione che tenta di regolare la materia. Per risolvere il problema, però, è bene comprendere da cosa dipende: in Italia, gli elementi che compongono la retribuzione sono stabiliti dallo Stato e dunque non dovrebbero esserci effettive differenze tra uomini e donne poiché la discriminazione salariale è teoricamente vietata dalla legge. Nella pratica, però, la situazione è molto diversa. Ciò che lo Stato impedisce sono le discriminazioni salariali dirette, ma esistono molti modi e molte cause indirette per permettere a tali discriminazioni di persistere indisturbate. Dai dati risulta che a parità di lavoro svolto ed esperienza, gli avanzamenti di carriera procedono in modo del tutto discontinuo tra uomini e donne, lasciando queste ultime in situazioni di inferiorità.
Alla base di tali dinamiche interiorizzate tanto dallo Stato quanto dalle aziende, resta un’unica reale causa, quel ruolo che spetta alla donna e a cui essa viene costantemente relegata: la maternità. Nella situazione in cui ci troviamo oggi, in realtà, è anche comprensibile perché agli occhi di un datore di lavoro una donna valga meno di un uomo. A livello istituzionale, i congedi di maternità sono ancora di gran lunga maggiori dei congedi di paternità, dunque è facile che un papà appaia più affidabile perché non si assenterà per mesi. In più, a parità di esperienza, una madre avrà sempre molte settimane di lavoro effettivo in meno rispetto a un padre. Al contempo, a livello culturale, il lavoro di cura è ancora svolto in gran parte dalle donne e la necessità di flessibilità oraria per accudire i figli è quasi sempre richiesta soltanto a loro.
La conseguenza di queste condizioni è che le donne si trovano sovente in mansioni e livelli di retribuzione inferiori, hanno meno potere di contrattazione sul salario e hanno molte più probabilità di accettare lavori part-time per conciliare famiglia e carriera. E, se non ci saranno massicci cambiamenti tanto a livello istituzionale quanto sul piano culturale, difficilmente le cose cambieranno. Non basta supportare il lavoro femminile: finché i congedi parentali saranno tanto diversi, renderanno le lavoratrici sempre meno appetibili dei lavoratori. E finché non si agirà culturalmente in modo da chiarire che la cura dei figli non compete solo alle madri ma riguarda ugualmente anche i padri, assumere un uomo sarà sempre più semplice.
La Regione Lazio sta mettendo in campo un tentativo – probabilmente parziale – di arginare il problema. La nuova legge di parità retributiva prevede lo stanziamento di 7.6 milioni nel corso di due anni. Essi non saranno diretti solo ad aggiungere toppe a una società che è evidentemente incline alla discriminazione, per esempio incentivando la presenza femminile nel mercato del lavoro o fornendo supporti per agevolare la conciliazione di lavoro e famiglia. La legge prevede, infatti, anche di diffondere una cultura non discriminatoria all’interno delle aziende e una tutela in più garantendo la parità all’interno degli organi di controllo. Si inizia a parlare, dunque, di cambiamento culturale. È possibile che il tentativo abbia compreso le dinamiche che generano la disparità, almeno sulla carta, ma saranno i risultati che arriveranno nel 2023 a rivelarne l’efficacia.
È chiaro che si tratti solo di un primo passo poiché difficilmente la disparità sparirà tanto in fretta. Eppure, sebbene ci sia un gran lavoro da fare per tentare di arginare il problema, la Regione Lazio è la prima a provarci, mentre in pieno ventunesimo secolo il resto dell’Italia resta inerme. Come detto, la disparità salariale nel nostro Paese non è prevista dalla legge come accadeva durante il fascismo, ciononostante la legge stessa non fa nulla per impedirla davvero. In fondo, lasciare che le discriminazioni persistano senza eliminarne le cause, senza neanche provare a capirle, non è tanto diverso dallo stabilire che il salario massimo femminile debba coincidere alla metà di quello maschile.