La lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità.
Cinquantasette è un numero che non fa rumore, come una foglia che cade d’autunno, come la brezza d’estate che, leggera, sfiora ma non scuote gli alberi. È un numero piccolo, di appena due cifre, che, seppure lo scrivi in grassetto, quasi non lo noti. Allora, lo accosti a un sostantivo, a qualcosa da quantificare, a dei giorni che, contati sul calendario, non sembrano più così pochi, soprattutto se trasformati in ore: milletrecentosessantotto, ottantaduemilaottanta minuti, quelli, attimo più, attimo meno, trascorsi tra la strage di Capaci e quella di via D’Amelio. 23 maggio, 18:08. 19 luglio, 16:58. Era il 1992. Era la Sicilia. A quei tempi, mi godevo ancora l’accogliente ventre di mia madre, eppure qualcuno, prima della mia nascita, mi stava già condannando a un mondo gestito dalla malavita. Avevano ammazzato la giustizia. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino erano morti, con loro anche la speranza che qualcosa potesse migliorare.
Da quei momenti, sono trascorsi venticinque anni, e non è cambiato nulla, non in meglio. La prima volta che vidi un film dedicato a due degli eroi più valorosi che abbiano camminato lungo queste strade, ero piuttosto piccina. Le lacrime versate, però, riesco tutt’oggi a percepirle sulle guance. Forse perché sono le stesse che, violente, si sono fatte vive negli ultimi giorni quando, ancora una volta, questo Stato si è arreso e li ha traditi.
Cinquantasette giorni, per un uomo, possono essere un’infinità, soprattutto quando questi aspetta l’ora della sua morte. C’è il tempo di provare paura, di scoprire la solitudine, di svegliarsi ogni mattina pensando sia l’ultima. Il 20 luglio, Paolo Borsellino avrebbe incontrato i magistrati della Procura di Caltanissetta per parlare dell’omicidio del suo collega, nonché grande amico, Giovanni Falcone. Sapeva qualcosa, probabilmente molto più di qualcosa, era un testimone, come lui stesso aveva iniziato a definirsi da quel maledetto pomeriggio di maggio. Per questo, forse, in una calda domenica precedente al tanto atteso incontro, aveva scelto di andare a salutare sua madre. Anche lui, come il più comune degli uomini, aveva avuto il bisogno di perdersi tra le sue braccia, di dirlo ancora una volta: mamma. Non ci riuscì. La sua vita finì prima che potesse congedarsi da colei che l’aveva generata e amata più di ogni altro.
Io accetto, ho sempre accettato più che il rischio […] le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall’inizio che dovevo correre questi pericoli. La sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi, come viene ritenuto, in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me. E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro.
Caro, non abbastanza, poco. Così poco che nessuno paga più, forse non pagherà mai. La Corte di Catania, infatti, in seguito alla revisione delle condanne emesse contro nove persone in relazione all’attentato al magistrato, all’indomani di importanti confessioni giunte dal pentito Gaspare Spatuzza, ha assolto tutti gli imputati per i quali, però, non è decaduto il reato di associazione mafiosa. A oggi, quindi, mentre Totò Riina chiede di lasciare il carcere perché – a suo dire – fatalmente malato, non si sa chi sia stato ad ammazzare Paolo Borsellino. Di un’agenda rossa, prontamente fatta sparire, resta solo il ricordo.
A Palermo, intanto, davanti alla scuola a lui intitolata, qualcuno ha danneggiato la statua di Falcone, staccandole la testa, per usarla poi come ariete per sfondare una vetrata di ingresso dell’istituto, mentre, poco distante, un cartellone con l’immagine del giudice è stato bruciato. A distanza di venticinque anni, la mafia è tornata a uccidere d’estate.
Dopo aver visto quel film, da piccola, mi convinsi che avrei voluto anche io, un giorno, indossare la toga. Crescendo, però, ho capito che era attraverso la scrittura che avrei provato a combattere le ingiustizie e la criminalità. Paolo Borsellino diceva: Parlate della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene. Spesso, penso sia uno di quegli argomenti che in troppi non vogliono ascoltare.
Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge.”
Lo avevano sognato in due.