A poche ore di distanza dalla ricorrenza degli ottant’anni che Paolo Borsellino avrebbe compiuto se fosse rimasto in vita, ci permettiamo di dissentire dalle parole da lui pronunciate quando affermò di non essere né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. E osiamo farlo perché Borsellino non era solo un servitore dello Stato, non era un magistrato che si limitava a svolgere le sue funzioni – già di per sé impegnative per la responsabilità che ogni esponente del potere giudiziario si assume –, ma era un cittadino che aveva l’ambizione di contrastare la mafia con la forza della morale e con il supremo senso delle istituzioni che gli apparteneva.
Proprio il senso dello Stato lo portò, nel corso della sua carriera, ad avere come principale obiettivo la verità, quella che intendeva scovare in merito alle dinamiche interne a Cosa Nostra nella sua regione, la Sicilia, che – assieme al pool di cui faceva parte e ad altri giornalisti, scrittori, uomini in divisa, preti e gente comune – voleva liberare da quel cancro sociale che la teneva in ostaggio e che non le consentiva di crescere e progredire, restando intrappolata in faide tra clan, sparatorie in pubblica piazza e omertà.
Cresciuto nel quartiere Kalsa, il PM inseguì l’ossessione della verità specialmente all’indomani del 23 maggio 1992, quando la vita dell’amico e collega Giovanni Falcone, insieme a quella di sua moglie e degli uomini della scorta, venne spazzata via durante la Strage di Capaci fortemente voluta da Totò Riina. La verità, però, può costare caro, così Borsellino pagò con la sua stessa vita. Nei 57 giorni che separarono la sua morte da quella del giudice, infatti, il magistrato stava arrivando a scoprire delle realtà inenarrabili. Per qualcun altro, ma non per lui, che ebbe a parlare di rapporti tra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del Maxiprocesso vennero chiamati “contiguità”, cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi, rapporti che non fece in tempo a dimostrare ma che stava toccando con mano al punto da riferire alla moglie di aver individuato elementi clamorosi.
E, infatti, la sua ostinazione fu vigliaccamente punita da chi non voleva fargli comprendere del tutto la realtà delle cose, come affermato nell’ambito della sentenza sulla Trattativa Stato-Mafia dalla Corte d’Assise di Palermo che ha affermato che l’unico fatto noto di sicura rilevanza, importanza e novità verificatosi in quel periodo per l’organizzazione mafiosa sono stati i segnali di disponibilità al dialogo – ed in sostanza, di cedimento alla tracotanza mafiosa culminata nella strage di Capaci – pervenuti a Salvatore Riina, attraverso Vito Ciancimino, proprio nel periodo immediatamente precedente la strage di via d’Amelio che implicarono l’improvvisa accelerazione che ebbe l’esecuzione del dottore Borsellino.
Per questo, ci sentiamo di affermare con certezza che sì, Paolo Borsellino era un eroe di cui abbiamo ancora bisogno, una persona che ci fa sentire meno soli, la rappresentazione concreta dell’ideale di giustizia, laddove per essa si intende stare dalla parte dei giusti. E il miglior modo per festeggiarlo è quello di dimostrargli che, in fondo, esiste quel movimento culturale e morale – di cui parlava – che coinvolga tutti, specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità, quindi complicità.
Un movimento culturale composto da tutti quei cittadini che non ricordano Falcone e Borsellino solo il 23 maggio e il 19 luglio, ma quotidianamente improntano le proprie azioni secondo canoni di legalità attiva, trasparenza, giustizia sociale. Dunque tutti coloro che si contrappongono agli antieroi, cioè quella schiera di subdoli e ipocriti che ancora oggi negano l’esistenza – acclarata da inchieste giudiziarie e giornalistiche – di accordi tra lo Stato e Cosa Nostra, che in vita hanno ostacolato la carriera del pool antimafia, che attuano leggi che sfavoriscono la lotta ai mafiosi favorendo, dunque, indirettamente questi ultimi, che si affidano ai criminali per raccogliere voti, che si mettono di traverso a chi sui media vuole raccontare la verità – come quando in RAI si impedì di trasmettere l’intervista rilasciata dallo stesso magistrato siciliano sui rapporti tra Dell’Utri, Berlusconi e la mafia.
Per fortuna, abbiamo ancora chi raccoglie l’eredità pesante lasciata da Borsellino, come Nino Di Matteo – che insieme ai suoi colleghi ha continuato il lavoro iniziato dai suoi predecessori a Palermo negli anni Ottanta –, Nicola Gratteri – a sostegno del quale sabato scorso è stata organizzata una manifestazione dopo la maxi-retata coordinata dal PM calabrese lo scorso dicembre –, oppure giornalisti come Sandro Ruotolo, Paolo Borrometi, Roberto Saviano – e ci scusiamo con tutti gli altri che non stiamo citando – la cui libertà è stata privata dalle minacce ricevute, molte delle quali rivolte a giovani cronisti locali che mettono a repentaglio la propria libertà per articoli sottopagati.
Ma anche tra gli eroi dei giorni nostri ci sono le associazioni di scout che si prendono cura dei beni confiscati e che in Sicilia hanno ricevuto tre attacchi nel giro di pochi mesi. Ecco, dottor Borsellino, questi, come Lei, sono a tutti gli effetti degli eroi. E non ci sentiamo di definirvi persone come tante altre.