Si è conclusa questa notte, al Dolby Theatre di Los Angeles, la 94esima edizione degli Academy Awards, che celebrano il cinema in tutte le sue forme e ci regalano ogni anno nuove e sorprendenti emozioni. Dal momento in cui vengono rese note le nomination – stavolta l’8 febbraio 2022 – è subito un toto Oscar, con i vari pronostici a tentare di indovinare chi trionferà. E, come quasi sempre accade, anche quest’anno non sono mancate le rivelazioni.
A cominciare dal miglior film, che in tanti davano già al fortissimo Il potere del cane o al poetico Drive my car e invece è andato a un altro titolo che si stava pian piano distinguendo: CODA – I segni del cuore. Commedia drammatica diretta da Sian Heder – l’avevamo già vista con Tallulah, del 2016 – è il remake americano del film francese La famiglia Bélier (2014) ma, a differenza di quest’ultimo, qui gli attori sono realmente sordi.
È infatti la storia di una famiglia i cui componenti sono tutti non udenti, tranne la figlia, Ruby, dotata di una voce straordinaria e desiderosa di studiare canto ma terrorizzata di privare i suoi familiari dell’unico contatto diretto che hanno con la società. Un film senz’altro tenero e commovente, ben diretto e interpretato, che tratta in maniera egregia il tema della disabilità. Tuttavia, troppo simile all’originale e forse non abbastanza potente, soprattutto quando a gareggiare nella stessa categoria c’erano pellicole del calibro di quelli sopracitati, come anche un favoloso Belfast di Kenneth Branagh, Dune di Denis Villeneuve, Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, La fiera delle illusioni – Nightmare Alley di Guillermo del Toro, Don’t Look Up di Adam McKay (che sappiamo non essere troppo piaciuto agli USA), Una famiglia vincente – King Richard di Reinaldo Marcus Green e West Side Story di Steven Spielberg.
CODA si è aggiudicato anche altri due premi: miglior sceneggiatura non originale e miglior attore non protagonista a Troy Kotsur. Un Oscar emozionante a un ottimo interprete, anche produttore e regista, il quale ha commosso il pubblico con un discorso in lingua dei segni. Non possiamo, però, non dire che sarebbe stato più soddisfacente vedere su quel palco, ad esempio, un Kodi Smit-McPhee (Il potere del cane), a dir poco straordinario in un ruolo piuttosto sfaccettato.
Miglior regista è, meritatamente, Jane Campion (Il potere del cane). Dubbi? Nessuno, ha semplicemente fatto un lavoro eccezionale e la statuetta non poteva che averla lei, prima donna a essere candidata per due volte alla regia e terza a vincere.
Jessica Chastain, per Gli occhi di Tammy Faye, si è aggiudicata miglior attrice protagonista, scavalcando la divina Olivia Colman (La figlia oscura), Penélope Cruz (Madres paralelas), Nicole Kidman (A proposito dei Ricardo) e una bravissima Kristen Stewart (Spencer). Avvolta in uno sfavillante abito lilla, la Chastain ha dedicato il suo discorso a chi si sente solo e ha perso la speranza. Il film ha anche ottenuto miglior trucco e acconciatura (invece, i migliori costumi sono quelli di Jenny Beavan per Crudelia).
Miglior attore protagonista è stato Will Smith per Una famiglia vincente – King Richard e si sapeva quasi per certo. Non erano da meno Benedict Cumberbatch (Il potere del cane), Denzel Washington (Macbeth) o Andrew Garfield (Tick, Tick… Boom!), comunque tra i favoriti. Anche Ariana DeBose come miglior attrice non protagonista era quotata tantissimo, forse perché in West Side Story è stata davvero un’ottima interprete. Neppure la maestosità di Judi Dench (la nonna del giovane Buddy aka Branagh, in Belfast) ha potuto nulla contro. Spielberg non è certo l’ultimo degli sprovveduti e ha diretto un secondo adattamento del noto musical di Leonard Bernstein, Stephen Sondheim e Arthur Laurents in maniera ineccepibile. Uno spettacolo per gli occhi e per le orecchie, che potete trovare attualmente su Disney+.
Abbiamo già parlato di Belfast, diretto da Kenneth Branagh, che si è beccato miglior sceneggiatura originale – peccato per Don’t Look Up perché davvero era geniale in questo senso – mentre miglior film internazionale è, senza alcuna sorpresa, Drive my car, del giapponese Ryūsuke Hamaguchi. Anche su questo abbiamo espresso la nostra opinione e, seppur con il patriottismo un po’ leso per la sconfitta di Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, non possiamo che applaudire a mani basse. Un road movie introspettivo, intenso, dalla fotografia e regia di alto livello e la capacità di colpire al cuore senza cadere nel mieloso.
Davvero impensabile che Disney-Pixar potessero perdere contro loro stesse, visto che avevano in gara ben tre candidature su cinque e dunque è Encanto a vincere miglior film d’animazione. Anche qui nessuna sorpresa, la sua We don’t talk about Bruno ha superato persino Let it go di Frozen, mentre la dolcissima Dos Oruguitas era in competizione per miglior canzone originale, vinta invece da No Time To Die, di Billie Eilish e Finneas O’Connell, dell’omonimo film.
Sei Oscar su dieci a Dune di Denis Villeneuve, cioè migliore fotografia, migliore colonna sonora, miglior sonoro, miglior montaggio, migliore scenografia e migliori effetti speciali. Il film è, infatti, tecnicamente divino, omaggio al prodotto originale e con un cast d’eccellenza. Nota di merito ad Hans Zimmer che ritira il suo premio in accappatoio, assente alla cerimonia poiché impegnato in un tour in Europa.
Citiamo, infine, Summer of Soul – …Or, When the Revolution Could Not Be Televised (Questlove, Joseph Patel, Robert Fyvolent e David Dinerstein) come miglior documentario; The Queen of Basketball (Ben Proudfoot) miglior cortometraggio documentario; The Long Goodbye (Aneil Karia e Riz Ahmed) miglior cortometraggio e The Windshield Wiper (Alberto Mielgo e Leo Sanchez ) miglior cortometraggio d’animazione.
Il momento più basso e allo stesso tempo più memorabile è stato senza dubbio la reazione di Will Smith a un’infelice battuta di Chris Rock. Mentre presentava una delle premiazioni, l’attore e comico ha preso in giro Jada Pinkett, moglie di Smith, a causa della sua alopecia, vedendosi subito dopo colpito al volto da quest’ultimo che ha poi gridato di non nominare più il nome di lei, con lo stesso pathos che ci aveva regalato a suo tempo Antonio Zequila.
Che dire, tra gelo e dubbio collettivo che fosse una gag preparata – non lo era – cercare di trovare la ragione in tutto ciò è davvero inutile. Rock poteva decisamente evitare una battuta abilista e di body shaming e Smith non è assolutamente giustificabile nel suo gesto violento, così come nella seguente risposta l’amore fa fare cose pazze. No, non è l’amore. Sono le persone. E in tutta questa mania di proteggere le proprie donne, l’unica persona a non aver avuto alcuna voce in capitolo resta lei: Jada Pinkett. Seppur visibilmente soddisfatta del maschissimo gesto del marito, avrebbe dovuto, se voleva, intervenire. E Smith poteva approfittare del suo discorso di premiazione per rispondere a tono, da professionista qual è e dovrebbe continuare a essere.