Sembrava impossibile eppure il COVID-19 non ha fermato gli Oscar 2021, gli ambiti Academy Awards che si sono tenuti al Dolby Theatre di Los Angeles nella notte tra il 25 e il 26 aprile. Una data storica, se consideriamo l’incredibile ritardo – due mesi circa – con cui si sono tenuti rispetto agli anni precedenti. Solo la quarta volta che succede nella storia delle celebri statuette. E non è l’unica innovazione di questa edizione.
Le ventiquattro categorie sono diventate ventitré, unendo miglior montaggio sonoro a miglior mixaggio sonoro, e anche i criteri di ammissibilità dei film sono mutati, proprio in vista della grande quantità di pellicole originariamente destinata alle sale e invece distribuita in streaming a causa della pandemia. Questo è anche il motivo che ha reso estremamente difficile, nel caso italiano, recuperare molti candidati agli Oscar 2021. Una standing ovation, dunque, va a Netflix, Amazon Prime, Disney+ e tutte le piattaforme che hanno dato la possibilità al cinema di continuare a vivere, per quel che si poteva. Perché un’opera, per avere successo, dev’essere guardata.
Ma veniamo a noi. È Nomadland il miglior film, sbaragliando contro Una donna promettente (Emerald Fennell), The Father – Nulla è come sembra (Florian Zeller), Judas and the Black Messiah (Shaka King), Mank (David Fincher), Minari (Lee Isaac Chung), Il processo ai Chicago 7 (Aaron Sorkin) e Sound of Metal (Darius Marder). Chloé Zhao si è inoltre aggiudicata il premio alla regia – la seconda donna a trionfare in questa categoria – e Frances McDormand quello di miglior attrice protagonista, nonostante l’incredibile prova attoriale di Vanessa Kirby in Pieces of a Woman.
A 63 anni, la McDormand ha sollevato la sua terza statuetta, ululando letteralmente di gioia, in un look da antidiva che ribadisce il suo essere anticonformista. Un po’ come Fern, il suo personaggio, una donna che, dopo aver perso quasi tutto durante la Grande Recessione, sceglie di vivere una vita da nomade a bordo del suo furgone, al di fuori delle convenzioni sociali. Un film dal taglio indipendente, quasi documentaristico, poiché adattamento del libro di inchiesta della giornalista Jessica Bruder.
Inaspettato ma meritatissimo il premio miglior attore protagonista a Anthony Hopkins per il suo ruolo in The Father. Una produzione franco-inglese, adattamento della pièce teatrale Il padre del 2012 e vincitrice anche per migliore sceneggiatura non originale. Hopkins ha dato l’ennesima prova della sua strabiliante abilità attoriale in un ruolo drammatico e suggestivo, sulle note di un immenso Ludovico Einaudi, che gli è valso il record di vincitore più anziano di sempre, a 83 anni. L’attore ha ringraziato il giorno successivo tramite social, omaggiando il collega Chadwick Boseman – anch’egli in gara, con il film Ma Rainey’s Black Bottom – scomparso prematuramente.
Il miglior attore non protagonista, invece, se l’è aggiudicato Daniel Kaluuya in Judas and the Black Messiah, film che vantava ben due candidature – anche Lakeith Stanfield – nella stessa categoria. Critico e schietto, racconta le vicende di Fred Hampton, leader delle Pantere Nere, nella Chicago del 1967. Kaluuya è cresciuto davvero tanto da prodotti come Skins o Black Mirror, consacrandosi con Scappa – Get Out e dimostrando di essere uno degli interpreti più espressivi della sua generazione.
Avevamo forse sperato qualcosa di più per Minari, di Lee Isaac Chung, che su sei candidature porta a casa quella per miglior attrice non protagonista a una straordinaria Yoon Yeo-jeong, oltrepassando persino Olivia Colman (The Father). In Minari, film bucolico ed estremamente attento alle problematiche dell’immigrazione, è la bizzarra nonna coreana della famiglia Yi, trasferitasi nell’Arkansas in cerca di fortuna. L’attrice è un volto iconico in Corea del Sud e adesso è ufficialmente consacrata pure in Occidente.
La pellicola era candidata anche per la migliore sceneggiatura originale, perdendo contro Una donna promettente di Emerald Fennell, in cui Carey Mulligan interpreta Cassandra. Quest’ultima convive con un orribile trauma legato a una sua cara amica e trascorre ogni notte nei club, scovando potenziali stupratori. Seppur carente rispetto agli altri prodotti in gara e a tratti un po’ sopra le righe, la Fennell ha messo in scena un potente film sulla cultura dello stupro, sul concetto di consenso e sulle conseguenze delle proprie azioni.
Nessuna sorpresa per il Disney-Pixar Soul, regia di Pete Docter, il quale ha trionfato come miglior film d’animazione e miglior colonna sonora grazie alle splendide musiche jazz e strumentali di Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste. Miglior sonoro e montaggio vanno invece a Sound of Metal, diretto da Darius Marder, la storia di un batterista che si ritrova improvvisamente a fare i conti con la perdita dell’udito.
Mank, il film con più candidature di quest’edizione – dieci –, ne ha ottenute due, migliore fotografia e migliore scenografia. Diretto da David Fincher, Gary Oldman veste i panni di Herman J. Mankiewicz durante la stesura della sceneggiatura di Quarto potere (1941). Un’opera senz’altro unica nella sua autorialità ed estetica.
L’Italia ne esce purtroppo a mani vuote, con Pinocchio di Matteo Garrone candidato a miglior trucco e migliori costumi, e Laura Pausini e la sua Io sì (La vita davanti a sé), candidata assieme a Diane Warren per la miglior canzone originale. I premi sono stati vinti rispettivamente da Ma Rainey’s Black Bottom e da Judas and the Black Messiah con Fight for you. La Pausini si è detta ugualmente felice dopo l’emozione di aver cantato sulla magica terrazza dell’Academy Museum of Motion Picture.
Migliori effetti speciali va a Tenet, mentre il miglior film internazionale è Un altro giro (Thomas Vinterberg). Il mio amico in fondo al mare, attualmente su Netflix, è il miglior documentario, Due estranei (Travon Free e Martin Desmond Roe) il miglior cortometraggio e Se succede qualcosa, vi voglio bene (Michael Govier e Will McCormack) il miglior cortometraggio animato.
In questa 93esima edizione, come nelle ultime, salta all’occhio la scelta di film sempre più attuali, dal taglio quasi indipendente. Film che scelgono di dare voce a minoranze, inclusività, abusi, razzismo, sessismo, disabilità. Storie diverse, storie nuove, lontane dal patriottismo di un tempo, che mostrano il grande cambiamento del cinema e del modo in cui oramai viene riconosciuto.