Mimmo Grasso si definisce poeta a tiratura limitata. Se il mezzo è il messaggio (McLuan), la tipologia di prodotto scelta da molti anni dal letterato, in tandem con artisti visivi e con edizioni anche a piombo (caratteri tipografici mobili), con case d’arte e d’artista, implica un pubblico emunctis naribus. La scelta ci sembra giusta in un periodo storico in cui i social abbondano di versificatori che, peraltro, non comprano né leggono poesia, non dotati di disciplina e retroterra culturale.
Brillante allievo in gioventù del filologo Marcello Gigante, Grasso è molto rigoroso e ha fatto suo il motto di Valéry Preferisco essere letto cento volte da una sola persona che una sola volta da cento. Notevoli i suoi saggi critici, impostati con metodo cognitivo-funzionalista. Il libro di cui vogliamo parlare, però, è Ortaglia (IL LABORATORIO/Le edizioni, Napoli, 2019) che costituisce un altro esempio della versatilità e della ricchezza dei registri espressivi di questo poeta-incursore in mondi culturali estremi.
Il volume ha per tema gli ortaggi, diffuso in pittura per esercizi di stile ma quasi mai trattato dai poeti (a parte qualcosa di Neruda e pochissimi altri). L’ortaggio è burino, inerte, sempre accoppiato nel linguaggio popolare a un sentimento di ridanciana negatività: non hai sale in zucca, testa di rapa, finocchio… In Grasso, invece, viene percepito dalla radice al fusto, al frutto, diventando simbolo psichico e sintesi culturale di molti mondi e, in termini di esercizi di stile, dimostra la capacità dell’autore di saper attingere all’originarietà della mente poetica mantenendo (nascondendo) le abilità compositive. Si veda, ad esempio, il bellissimo testo dedicato all’albahaca (arabismo: basilico), in cui vengono innestati come propri versi di Machado, l’alchemica melanzana, il carciofo-samurai che, solitario sulla luna, recita un mantra, l’arcano sedano, rimedio e radice amarulenta di un poeta che ascolta/l’angelo del malincuore.
La metrica è varia: si va dal verso libero al sonetto, alla villanella, all’haiku allo gliuommero del Sannazzaro, fino a trascrivere tra virgolette, come fosse propria, una rima del Tasso da musicare secondo lo stile del Cinquecento. Non è poco pertinente parlare di metafisica dell’orto, oraziana e conchiusa. Ne trascriviamo un esempio (Arancia):
stavi meditabonda. bisbigliavi
(«’Aληθείης eύκυκλέος άτρεμές ήτορ», …).
mi hai distratto:
non ho visto scendere la notte
dai triangoli del vesuvio,
distendersi nel cerchio del pavone.
È un’arancia che bisbiglia nel greco di Parmenide, il primo filosofo-poeta dell’essere come solido cuore dell’incentrata, rotonda verità (a-leteia, il non Lete, il non nascosto). Sennonché, a un’analisi un poco più approfondita, si rilevano forme nascoste della geometria che caratterizza l’essere, la sua forma: i triangoli del Vesuvio e il cerchio della ruota del pavone. Bellissimi i testi che aprono e chiudono la raccolta, dedicati a due contadini: il padre, paddeco, schiavo, emigrato in una Torino di catrame e che solo in un minimo orto ritorna a suonare il tamburello come i cantori-pastori dell’Aspromonte, e la madre, cantatrice, che riesce a comprendere il moto rotatorio della terra solo come miracolo.
Ecco: Grasso è un autore che, insieme con audaci performance linguistiche e un formidabile apparato culturale, mantiene, sempre, il contatto con l’humanitas e che, come Seamus Heaney, percepisce il mitico e l’ancestrale visibilissimo nelle cose ordinarie, così ordinarie da essere invisibili.
Ortaglia è stato concepito e prodotto a quattro mani, quelle del poeta e quelle dell’artista Quintino Scolavino, i cui acquerelli sono una gioia visiva per il lettore: delicati come un inchino, fulgidi come la notte stellata. Sfogliando il libro, bisogna stare attenti a non toccare questi acquerelli o i polpastrelli lasciano su di essi un’impronta.
Contributo a cura di Antonio Sgambati