Negli ultimi tempi non si è fatto che parlare dell’emergenza ambientale e di quel riscaldamento globale la cui imminenza, in termini di sconvolgimenti climatici ormai visibilmente in atto, ci ha colto un po’ alla sprovvista. Reduci di decenni di avvertimenti da parte degli scienziati di tutto il mondo, ora si cerca di correre ai ripari, raffazzonando leggi e direttive, rinunce agli sprechi, prima di arrivare al terribilmente imminente punto di non ritorno. E la costante inefficacia di ogni tentativo di rimediare ha risvegliato l’opinione pubblica, anche grazie all’intervento di personaggi come la tanto amata – e tanto criticata – Greta Thunberg.
L’Accordo di Parigi, in vigore dal 2015, è la normativa attualmente in atto per la tutela dell’ambiente. I 196 Paesi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC) lo hanno stipulato con lo scopo di ridurre le emissioni di gas serra a partire dal 2020. Il loro impegno ha l’obiettivo a lungo termine di limitare l’aumento medio della temperatura mondiale ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali. Risalgono, tuttavia, agli ultimi decenni del secolo scorso le prime iniziative normative per la tutela del territorio. In Italia, ad esempio, il Ministero dell’Ambiente è stato istituito nel 1986 ma, nonostante la presenza di vari enti, come l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale e il Sistema Informativo Nazionale Ambientale, svolgono ancora un ruolo importante anche le associazioni ambientaliste, come WWF e Legambiente, impegnate a divulgare le informazioni su tutto il territorio.
Attualmente, però, la consapevolezza del problema non riesce a risolverlo. Nonostante i provvedimenti giunti troppo tardi e la ormai radicata natura dell’emergenza, infatti, la crisi non potrà essere scongiurata finché esisteranno i due fattori che la generano. In situazioni di povertà risulta impossibile preoccuparsi di non sprecare risorse o di non produrre inquinamento, poiché le energie sono tutte indirizzate alla sopravvivenza. D’altro canto, anche la ricchezza sembra ignorare le conseguenze dell’insistente produzione. I due opposti dell’economia e della vita globale, dunque, si fondono nelle loro ripercussioni, causando l’emergenza che oggi viviamo come società del rischio. Quella società, analizzata dal sociologo Ulrich Beck, in cui l’imminenza di rischi molto più grandi del singolo e impossibili da risolvere personalmente portano la popolazione globale a ignorarli.
La sorpresa che l’allarme imminente ha causato è stata indicativa della scarsa conoscenza dell’origine del problema. I primi provvedimenti internazionali per arginarlo risalgono agli anni Novanta, momento in cui si è cominciato a pensare che l’estrema industrializzazione affrontata nel corso del secolo avesse portato a conseguenze tragiche. In realtà, però, l’inquinamento come lo intendiamo oggi ha origini più lontane nel tempo e risale alla Rivoluzione Industriale.
L’avvento di industrie moderne, mezzi di trasporto che adoperano combustibili fossili e l’esigenza di una vita più efficiente e veloce hanno generato il fenomeno con cui abbiamo a che fare ancora adesso. Non a caso, l’origine del termine smog risale proprio al diciannovesimo secolo, quando le grandi città cominciarono a essere sommerse dalle nuove nebbie di fumo. Il primo a ipotizzare che l’azione dell’uomo stesse modificando il clima fu Svante Arrhenius, uno scienziato svedese che nel 1896 sostenne una relazione tra la concentrazione di anidride carbonica e la temperatura atmosferica. Le sue teorie furono confermate, poi, dal geologo Thomas Chamberlin, dimostrando che le attività umane riscaldano l’atmosfera tramite l’utilizzo di combustibili fossili.
Eppure, per quanto il riscaldamento globale sia un fenomeno legato all’industrializzazione, i cambiamenti ambientali hanno radici più profonde di qualche secolo. L’ambiente, nel corso della storia del nostro pianeta, si è più volte modificato. Basti pensare alle innumerevoli ere glaciali e ai mutamenti climatici affrontati durante i millenni. Tutti cambiamenti, però, avvenuti in modo naturale e autonomo. La comparsa dell’uomo, invece, ha totalmente cambiato le cose. Quando i primati cominciarono a farsi strada sulla Terra, infatti, misero in atto il cosiddetto processo di ominazione, secondo cui si sono adattati all’ambiente e hanno posto le basi per passare dallo stato animale a quello più vicino a ciò che siamo oggi. Ma prima di abbandonare lo stadio selvatico e diventare completamente umani, i nostri antenati hanno dovuto affrontare un ulteriore processo, quello di civilizzazione. Tramite questo passaggio, dall’adattamento dei corpi e delle coscienze all’ambiente si è giunti all’adattamento dell’ambiente. A differenza degli altri esseri viventi, che vivono in funzione del loro habitat, infatti, l’uomo costruisce il proprio a seconda delle sue esigenze, lo plasma e lo modifica.
Non dovrebbe sorprendere, quindi, che alla fine l’attività umana abbia smesso di mutare la Terra in modo superficiale, causando alterazioni pericolose per la sua stessa sopravvivenza. Risulta strano, però, che l’infinito ingegno della mente umana, che ha rivoluzionato costantemente il mondo, non riesca a risolvere i problemi che inavvertitamente causa e non trovi un modo per svolgere le proprie attività arginando i rischi che corriamo costantemente. Qualunque cambiamento l’azione androgena causerà non comporterà la morte del pianeta, che probabilmente continuerà a esistere, seppur dalla flora e fauna irrimediabilmente mutate. Ciò per cui si corre ai ripari è il pianeta abitabile di cui abbiamo bisogno. Ciò che si cerca di salvare siamo noi, noi che abbiamo modificato l’ambiente per poterci vivere. Gli stessi che, proprio a causa di quei mutamenti, rischiano di essere spazzati via.