Venticinque udienze, decine di testimoni, 147 migranti e un Ministro. Cinque anni dopo la sciagurata estate del 2019, quando l’allora titolare del Viminale deliziava i suoi elettori a torso nudo dietro la consolle del Papeete, il PM di Palermo ha chiesto sei anni di reclusione per Matteo Salvini nell’ambito del processo per il caso Open Arms. Il motivo è presto detto: sequestro di persona plurimo, omissione e rifiuto di atti di ufficio. Tra un mese, in aula, ci sarà la replica della difesa; entro l’anno la sentenza definitiva. Intanto, la Bestia torna affamata. Come e più di prima. Ma andiamo con ordine.
Nell’agosto del 2019, Matteo Salvini, in carica al Ministero dell’Interno, impedisce l’attracco della nave dell’ONG spagnola Open Arms che ha appena salvato 164 migranti in tre diverse operazioni di soccorso nel Mediterraneo. L’imbarcazione resta bloccata al largo di Lampedusa per diciannove giorni poi, dopo diversi sbarchi di emergenza e il tuffo in mare di diverse persone nel tentativo di raggiungere la terra a nuoto, il procuratore di Agrigento ordina che i migranti siano fatti scendere immediatamente. Non un caso unico in questo periodo.
Nel 2020, dunque, il Tribunale dei Ministri di Palermo chiede al Senato l’autorizzazione a procedere contro il leader della Lega, accusato di aver privato della libertà personale i migranti, tra cui diversi minori. I giudici allegano alla richiesta uno scambio di documenti tra Giuseppe Conte e Matteo Salvini per dimostrare che questi avrebbe agito in totale autonomia e in aperto contrasto con il Presidente del Consiglio. La Giunta per le immunità e le autorizzazioni del Senato concede l’autorizzazione e passa la palla al Parlamento. Dopo il caso Gregoretti, Matteo Salvini torna a processo dove, il 14 settembre 2024, i PM chiedono la reclusione: per loro, infatti, i diritti dell’uomo vengono prima della difesa dei confini. Una scelta lessicale che altro non è che il ribaltamento di un’espressione a cui lo stesso Salvini si è attaccato prima, durante e dopo l’udienza.
Complice l’ennesimo utilizzo privato del servizio pubblico, a pochi sarà sfuggito il video pubblicato sui social del Vicepremier. Tre minuti e quarantanove secondi – mandati integralmente in onda dalla tv di Stato – in cui Salvini si dichiara colpevole di aver difeso l’Italia e gli italiani e di aver mantenuto la parola data, vale a dire impedire lo sbarco di poveri cristi. Lo sfondo è nero, l’inquadratura verticale, le luci a illuminare solo il volto dell’imputato che così si presenta:
Matteo Salvini, nato a Milano il 9 marzo 1973, Vicepresidente del Consiglio e Ministro dell’Interno da giugno 2018 a settembre 2019. Oggi sono a processo e rischio il carcere perché in Parlamento la sinistra ha deciso che difendere i confini italiani è reato.
La musica ne scandisce le parole. E le parole pronunciate sono importanti: sin da subito, infatti, il Ministro polarizza la questione, devia il discorso e lo porta dove vuole, nel campo della propaganda e non dell’azione giudiziaria. Nel suo monologo, “difendere” e “difesa” compaiono ben cinque volte, ma mai si precisa che in Italia non esiste il reato di difesa dei confini. Esistono, invece, i crimini contestati, reati per cui Salvini è indagato ma non condannato.
In particolare, nel caso della privazione o della limitazione della libertà, soltanto l’autorità giudiziaria è competente in materia, qualora la persona o le persone coinvolte abbiano commesso un reato. E se i migranti sono richiedenti asilo non sono nemmeno da considerarsi irregolari. Neanche se li si chiama clandestini. La politica, insomma, non può e non deve sostituirsi alla magistratura, a meno che non pretenda e ottenga i pieni poteri. E Salvini, in quella folle estate, ne ha reso noto il desiderio.
Il video procede con la ricostruzione dei fatti. L’imputato afferma che Open Arms ha rifiutato l’accoglienza di Tunisia, Malta e persino Spagna, lo Stato battente bandiera. Non specifica, però, che la Tunisia non è un porto sicuro, che Malta si è detta disponibile solo per poche persone e che la Spagna non era il Paese più vicino. Eppure, Salvini ha esperienza a sufficienza per sapere che è così che funziona, che non bastano i colori di una bandiera a indirizzare le navi in servizio nel Mediterraneo, che serve il porto sicuro. Non il secondo, non il terzo, ma il primo, il più prossimo, spesso l’Italia, da cui poi vanno avviate le pratiche di smistamento.
I giudici ritengono che la situazione fosse particolarmente grave: queste persone, costrette a restare a poca distanza dalla costa, che riuscivano comunque a vedere, ma che non riuscivano a raggiungere, provassero sentimenti di frustrazione evidente e anche di disperazione […]. Le persone da cui Salvini dice di averci difeso. Dai bambini, dai minori non accompagnati, dagli uomini e dalle donne in cerca di un paese innocente? Questo il Ministro non lo precisa. Propone, però, una propria versione dell’articolo 52 della Costituzione – La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino – e omette la materia di discussione: servizio militare e non sequestro di persona, Carta Costituzionale e non Codice Penale. Il resto è mera interpretazione che diventa propaganda e può diventare autoritarismo.
Se persino la Presidente del Consiglio segue Salvini su questo pericoloso terreno – avallando la tesi della tutela dei confini nel rispetto del mandato ricevuto dai cittadini (ma i cittadini non scelgono direttamente i ministri) – non si tratta di farneticazione, antagonismo o giornalismo spicciolo. Si tratta, da un lato, di un’invasione di campo tipica della destra; dall’altro, di un guanto di sfida ai giudici che dovranno esprimersi tra qualche mese, carichi di una pressione che in democrazia non troverebbe spazio e su cui Salvini intende far leva.
Non è un caso che, lo scorso martedì, sulla Mare Jonio di Mediterranea Saving Humans si siano svolte tre visite programmate per il rinnovo delle certificazioni dell’imbarcazione e una quarta ispezione qualificata come occasionale – non dovuta né giustificata – effettuata dal Comando Generale delle Capitanerie di Porto su ordine del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Quasi undici ore di perlustrazione per intimare lo sbarco immediato di tutti gli equipaggiamenti correlati all’attività di salvataggio […], pena la decadenza del certificato d’idoneità. Al momento, dunque, la nave non è autorizzata a salpare, ma non per questo i migranti non partiranno: rischiando di essere punito, è loro che Salvini punisce. È loro che pagano le colpe di una magistratura che non deve piegarsi.
Con questo obiettivo, la Premier e i suoi alleati di governo – Tajani parla di scelta irragionevole priva di fondamento giuridico – capovolgono la realtà e ne creano una a proprio piacimento da offrire agli elettori e ai peggiori esponenti della destra eversiva, violenta e autoritaria che in Europa come negli Stati Uniti ha, purtroppo, grossa cassa di risonanza. Basti pensare ai tanti nomi che si sono spesi per la causa Salvini, da Elon Musk a Marine Le Pen, Jordan Bardella o Viktor Orbán, per citarne alcuni. Tutte personalità impegnate nella caccia al migrante, nella difesa dei popoli, della loro identità e della loro sicurezza contro la sinistra islamista. Tutti fomentatori di un odio che, ancora, può minacciare la tenuta di un mondo sull’orlo del precipizio.
Ecco che, allora, il peso dei giudici assume una proporzione diversa, sin troppo grande rispetto a una politica chiamata a tutelare tutti e, invece, interessata soltanto a se stessa. Ecco che, allora, tra guerre e tecnologia di guerra, tra propaganda e fake news, tra disperazione e scarse prospettive, è la magistratura a potersi e doversi assumere un ruolo universale, forse – ma solo forse – giusto. E se la giustizia appare come l’ultima speranza non è una buona notizia.