Sono un po’ preoccupata per questa recensione. Come si fa a scrivere di un memoir che corre sul filo della vergogna e del lutto, del silenzio e della malattia? Durante la lettura di La paura ferisce come un coltello arrugginito (nottetempo) mi sono sentita un’intrusa senza alcun diritto di essere testimone di un viaggio così faticoso nel dolore e nel passato. Ho timore che le mie parole abbiano l’effetto di un elefante in una cristalliera, che in modo sgraziato pestino e frantumino delle immagini fragili e delicate.
Il libro di Giulia Scomazzon, però, non è una cristalliera. Il trauma e la perdita non vengono esibiti in un salotto borghese per essere ammirati da chi prende il tè sul divano. E non sono neanche – come scrive l’autrice stessa – delle opere dentro al padiglione della Biennale di arte o architettura, ricordi messi accuratamente in fila a cui il lettore può accedere semplicemente pagando un biglietto.
Questo libro non può essere nulla di tutto ciò perché la memoria non è certa. La psichiatria ci spiega che il trauma può portare a rimuovere il passato, a cancellare mesi, anni, delle intere esistenze. A discapito del nome del genere, in questo memoir non ci sono ricordi chiari e indiscutibili, ma dei frammenti scomposti e confusi. Più che un racconto della verità, c’è una ricerca di essa.
L’autrice, per combattere l’oblio, inizia un’indagine per ricordare la donna che ha perduto a otto anni: sua madre. Si chiamava Roberta, dalla foto in copertina ne sbirciamo gli zigomi affilati e lo sguardo basso. Sappiamo che si è ammalata di qualcosa di innominabile, una nota stonata nel pentagramma. L’AIDS – scrive Scomazzon – è un modo strano di morire per una mamma che lavora in fabbrica e prepara dolci nei fine settimana.
Per “strano”, in questo caso l’autrice intende “straniante”: Come c’è finita mia madre nella scia di morte che parte da Rock Hudson e arriva a Freddie Mercury? Cosa c’entra mia mamma con Michel Foucault e Derek Jarman? Io e voi, noi italiani, riusciamo a pensare all’AIDS negli anni Ottanta e Novanta solo dentro ai canoni di un immaginario costruito da altri.
Ed è vero. Guardo la donna in copertina: una madre dal volto gentile. Sfoglio il libro e ci trovo dentro una foto in cui mantiene sua figlia in piedi su una sedia mentre spegne le candeline. Non riesco a immaginarla protagonista di Philadelphia o Dallas Buyers Club, o che stringe la mano alla principessa Diana. Non era un uomo omosessuale né una prostituta e fatico ad associarla al classico stereotipo del tossicodipendente.
Eppure, per un paio d’anni, Roberta ha fatto uso di eroina. In quel periodo non spacciava, non rubava, non si prostituiva: era una ragazza tranquilla, in fabbrica dal lunedì al venerdì. È così facile pensare a chi usa l’eroina come a un essere umano improduttivo – scrive Scomazzon – un peso per la società e per i propri affetti, che costa fatica persino a me immaginare una lavoratrice onesta che si buca qualche volta, nei fine settimana, per uno o due anni.
Mi chiedo continuamente perché Roberta non abbia scelto tra la vita e l’eroina con la chiarezza irrealistica del protagonista di Trainspotting. Perché uno o tre anni è rimasta intrappolata tra le due alternative, tra le rate per un elettrodomestico e quella specie di oblio orgasmico delle droghe?
Alla fine, però, un’alternativa è stata scelta e Roberta si è trasformata in una madre: quando è venuto il momento, ha lasciato alle spalle l’eroina e si è sposata. Ha costruito una famiglia normale, felice, che va a fare le vacanze in camper e vive il sogno piccolo borghese.
Basta la verità di questi dettagli a fare a pezzi la concezione di tossicodipendente e di malato d’AIDS che tutti noi ci siamo creati. Non ci sono colpevoli o mele marce da additare, solo dei ventenni che soffocavano le loro angosce e frustrazioni in un oblio artificiale. Nulla di diverso dalla nostra generazione, che pur non vivendo un’epidemia di abuso di droghe pesanti, è passata ad assumere psicofarmaci per smorzare il dolore.
La stessa autrice li consuma e ammette con candore che, se all’età di sua madre avesse scoperto un modo più efficiente per sedare i suoi attacchi di panico e le sue angosce, non avrebbe avuto ragioni per rifiutare. Cambia il mercato, non il cervello del consumatore, e il mio, evidentemente, assomiglia nelle sue fragilità a quello di mia madre, è troppo sensibile al dolore, ha bisogno di difese artificiali perché quelle naturali sono crollate troppi anni fa in un terremoto che non ha lasciato memoria.
Un ritratto generazionale sincero, che stride con le parole urlate dai politici e dalle istituzioni. Nel libro si ricordano quelle di Carlo Donat-Cattin, Ministro della Sanità dal 1986 al 1989, che dichiarò: «L’AIDS ce l’ha chi se lo va a cercare», l’espressione di ciò che, sotto sotto, l’Italia pensava. Te l’avevano detto che la droga significa sempre e solo morte, ma tu niente, hai voluto farti per qualche mese o per cinque anni […] Chi è causa del suo mal pianga se stesso, gli altri conserveranno le lacrime per occasioni migliori.
In Italia, al vertice delle categorie di esposizione non ci sono mai stati gli omosessuali, ma i tossicodipendenti. Nel 1994 circa il 67% dei malati italiani di AIDS aveva contratto il virus attraverso l’uso iniettivo di droghe. La storia di Roberta non era anomala: l’AIDS fu la seconda causa di morte tra le donne trentenni venete e la prima tra i loro coetanei maschi. Per loro, però, non ci fu mai compassione o accettazione: solo vergogna e silenzio.
Lo stigma era troppo forte perché le siringhe non potevano nemmeno essere confuse con l’amore. Lo ha raccontato l’autrice su Fahrenheit: i tossicodipendenti venivano percepiti come persone sacrificabili perché votate solo all’egoismo e alla criminalità.
In tre anni, dal 1993 al 1996, una patologia individuata nel 1981 ha ucciso oltre diciassettemila giovani adulti italiani. Dal 1981 al 1993: dodici lunghi anni di gestazione per partorire un picco di mortalità che in alcune aree d’Italia (le grandi città, le regioni produttive del nord e il Lazio) ha assunto i caratteri di una vera e propria strage generazionale.
Una generazione senza memoria. Scomazzon racconta che, almeno, la comunità LGBTQI+ ha avuto la possibilità di lottare perché la storia dei suoi morti non venisse dimenticata, avendo l’orgoglio dalla sua parte. Invece, i tossici e gli ex tossici no: la sessualità è parte integrante dell’essere umano anche quando devia dalla norma, la droga no, non si può essere “orgogliosamente” tossicodipendenti o anche solo “orgogliosamente” consumatori di droga.
Ancora oggi, nelle giornate dedicate all’AIDS, si parla di ricerca, di prevenzione, di accesso alle cure e di pregiudizi, ma non di morte. La morte – scrive l’autrice – è stata definitivamente espulsa dal discorso pubblico sull’AIDS, anzi, sospetto che non ci sia nemmeno mai entrata, qui in Italia gli italiani non ricordano i morti perché quei morti erano più invisibili che altrove, più isolati e più incarcerati.
Durante tutto il memoir, il privato si fonde al pubblico. La storia di Roberta, di Giulia, di suo padre – un uomo nascosto tra le righe, ma che si rivela in chiusura – si mescola a quella di una generazione di dimenticati. Dopotutto, non si ricorda mai da soli. Scomazzon, in assenza di memoria, cerca sua madre nei ricordi e nelle storie degli altri: non solo nelle foto, nelle lettere o nelle testimonianze delle amiche e conoscenti di Roberta, ma anche nelle statistiche e nelle stime, in una storia comune di perdite senza nome.
Una storia comune che è anche quella di chi resta. Gli orfani dei malati di AIDS – quelli che hanno il 30% di possibilità di ereditare il virus in gravidanza – ereditano l’invisibilità dei loro genitori. Non fanno parte di un’esperienza normale, sono un errore di fabbricazione, una deviazione dalle norme dell’impianto sociale, della Famiglia. In queste pagine, invece, riprendono corporeità. Diventa impossibile non guardare il loro dolore negli occhi, non accorgersi della loro esistenza. Non sono più un’anomalia, ma delle esistenze reali e concrete. In questo caso, il trauma riesce a non essere una performance dentro una gabbia che separa e isola i soggetti e i loro traumi, ma un piccolo ponte di dialogo tra chi ha vissuto tutto questo e con chi legge.
E, a proposito di lettori: spesso, Scomazzon si preoccupa dell’uso che fa della parola tossicodipendente. Teme di inquinare la memoria di Roberta, di sottoporla al giudizio e al moralismo di chi sfoglierà questo libro. Spesso, si vergogna dei dettagli che rivela, teme di umiliarla e svenderla pubblicamente. Invece, fa proprio il contrario: è l’immagine di sua madre a cambiare la percezione della parola tossicodipendente e non il contrario.
Lo sforzo dell’autrice di tenere assieme le due metà di Roberta – quella di consumatrice di eroina e malata di AIDS con quella di operaia e madre amorevole – ha un valore umano enorme. Questa piccola ribellione a una damnatio memoriae imposta dall’alto restituisce dignità a milioni di esistenze perché oltre a essere ricordate, meritano semplicemente di essere amate.