La questione del politically correct è senza dubbio tra gli argomenti più dibattuti e all’ordine del giorno, in grado di generare le peggiori calamità naturali. Nella Treccani, il termine viene identificato come discorsi e comportamenti improntati al rispetto delle minoranze e dei gruppi sociali più deboli e discriminati (da un punto di vista di razza, etnia, religione, genere, età, orientamento sessuale o relativi a disabilità). Si tratta, quindi, della ricerca di un linguaggio il più possibile inclusivo al fine di evitare espressioni o atteggiamenti che possano essere ritenuti offensivi da specifiche categorie, quelle storicamente omesse dal sistema dominante.
Anche in vista dei movimenti sempre più attuali e prorompenti – vedi #MeToo, #BlackLivesMatter, #nonunadimeno – la protesta fatta più spesso, per l’appunto, è che oggi non si può dire più niente. Una frase all’apparenza innocua, che mira quasi a sdrammatizzare, per non dire banalizzare, una certa situazione di squilibrio. Eppure, dietro, cela molto altro.
Come dimenticare lo spiacevole episodio ai danni di Aurora Leone dei The Jackal, durante la Partita del Cuore, oppure Mario Balotelli che, dopo aver utilizzato un linguaggio estremamente sessista e volgare nei confronti della sua ex Dayane Mello, si giustificò con la solita solfa del sto scherzando, sorridi un po’. O, ancora, le recenti frasi omofobe (seppur dette d’istinto) pronunciate dal tennista Fabio Fognini durante un match o, più semplicemente, una buona maggioranza di esponenti dell’informazione italiana e non.
Non si può dire più niente ha l’intento di denunciare una sorta di dittatura della parola, una libertà di espressione minata da un pubblico oggi troppo suscettibile e che – se ci va bene – ha soltanto frainteso. Questo tipo di censura viene, spesso erroneamente, ricondotta alla cancel culture, una forma di ostracismo moderno che prevede appunto la cancellazione di qualcuno o qualcosa considerato sbagliato e divenuto oggetto di polemiche. Come successe con Via col vento per cui chiesero la rimozione – per fortuna temporanea – dal catalogo HBO in quanto film razzista.
Per molti personaggi di spicco il rischio di perdere il lavoro o di essere costretti alle dimissioni è dietro l’angolo, senza contare la gogna mediatica e tutto per una battuta o per aver espresso la propria sincera opinione. Ma è davvero così? O si potrebbe provare a guardare il tutto da un’altra prospettiva più completa?
Quando qualcuno viene tacciato di sessismo, come di razzismo, omofobia o altro, la prima reazione è quella del solito alibi. Difficilmente si prova a mettere in discussione se stessi, a informarsi sull’argomento in questione, a chiedere il perché di una certa reazione. Basterebbe, talvolta, guardare oltre le parole. O, meglio, dietro.
Un’affermazione, all’apparenza innocua, può nascondere un concetto ben più ampio, datato e oscuro. Non serve un pozzo di scienza per constatare che si vuole far passare come ironia o libera espressione l’ennesima forma di potere da parte di una cultura predominante nei confronti di una minoranza. Una cultura ai vertici della società, che grida alla censura dai propri piedistalli. Che fa riferimento ai totalitarismi e ai roghi dei libri in epoca nazista. Ma quello era proprio il potere, oggi è il pubblico a parlare. E questo tipo di pubblico è considerato minaccia, non deve sovvertire l’ordine delle cose, non deve minare lo squilibrio di potere a cui siamo tutti, inevitabilmente, abituati. Molto facile celarsi dietro l’ostracismo a causa di un eccessivo politically correct, piuttosto che provare a mettere da parte quella presunzione di aver compreso tutto sulla base della propria esperienza personale.
Eppure, sembra quasi all’ordine del giorno dire qualcosa di irrispettoso, errato, discriminatorio. Cosa succede, dunque? Succede che il mondo cambia e con esso la forma mentis e le parole. Prendiamo in esempio le donne. Più facile spiccare il volo, oggi, che evitare un’espressione sessista. Il fatto è che le persone che adesso parlano sono le stesse che hanno imparato a parlare dai genitori, dai nonni, etc… Naturale che gran parte di ciò che veniva normalizzato in passato non possa esserlo ancora. Allo stesso modo, se agli uomini è stato insegnato a parlare in una certa maniera, alle donne è stato insegnato a tacere. A essere discrete, tolleranti. E quindi, non si può dire più niente. Ma i problemi sono piramidi. Catcalling, revenge porn, stupro e femminicidio sono risultati di un’ideologia dietro cui ci nascondono, come sempre, le parole.
Doveroso precisare che c’è una bella differenza tra certe ideologie e una sana e contestualizzata ironia. Come un ottimo medicinale, che prevede anche vistosi effetti collaterali se non usato nella giusta maniera, anche il politically correct a volte è vittima di se stesso. Inoltre, errare è umano – ammetterlo non è una debolezza, anzi – e nessuno dovrebbe trovarsi sul patibolo per aver detto una frase fuori posto. Restiamo esseri imperfetti e figli di una certa cultura, difficile da abolire dall’oggi al domani. Tuttavia, è fondamentale che una figura pubblica comprenda l’importanza della sua influenza, degli effetti che parole e comportamenti hanno sul proprio seguito.
Impariamo, quindi, a dare valore al linguaggio, a comprendere che, spesso, è il contesto a fare la differenza e che chiunque può sbagliare senza per questo essere condannato alla damnatio memoriae. Impariamo che, anziché insistere e scalare specchi, si può provare a riflettere e, semplicemente, chiedere scusa. Non è vero che oggi non si può dire più niente. È che a qualcuno, di lasciare quel piedistallo, proprio non gli va giù.