La Corte Costituzionale – domani 11 gennaio – è chiamata a pronunciarsi su un nodo centrale dell’attuale panorama politico italiano. La sentenza di ammissibilità sui quesiti referendari contro il Jobs Act, proposta dalla CGIL, potrebbe infatti portare a uno scardinamento dell’intero assetto politico voluto dal governo Renzi. Dopo il sonoro NO espresso dalla maggioranza degli aventi diritto al voto sul tentativo di revisione costituzionale, ora i cittadini potrebbero bocciare anche le politiche sul lavoro del precedente esecutivo.
I quesiti avanzati dal sindacato sono tre e, in quanto proposte referendarie previste dall’art.75 della Costituzione, sono da definirsi referendum abrogativi. Il primo attiene all’abolizione della parte della riforma che, introducendo le cosiddette “tutele crescenti”, elimina di fatto l’art.18 dello Statuto dei lavoratori, il quale esprime le garanzie contro i licenziamenti illegittimi. L’obiettivo, oltre alla cancellazione delle modifiche suddette, è anche quello di reintrodurre, attraverso una normativa di risulta, le tutele per il prestatore. Il secondo quesito riguarda, invece, l’abrogazione dei voucher, ovvero i buoni per i lavori occasionali, il cui allargamento a diverse categorie di produzione potrebbe portare a favorire il lavoro nero, creando una parvenza di continuità ma, in realtà, deresponsabilizzando il datore di lavoro ai danni dei dipendenti. Infine, la terza e ultima questione che concerne l’eliminazione delle disposizioni limitative della responsabilità solidale in materia di appalti.
La decisione dei giudici non è per nulla scontata. Anche Massimo Villone – noto professore di Diritto Costituzionale della “Federico II” di Napoli – ha espresso un certo pessimismo in una recente intervista. Senza dubbio, quella del Jobs Act è stata una manovra particolarmente osteggiata sia dai cittadini che dai sindacati. Con una terminologia a effetto, fatta di quegli anglicismi tipici della retorica renziana, si è cercato – quasi gattopardescamente – di coprire con il velo del “nuovo che avanza” una regressione sul piano dei diritti di stampo liberistico. “Occorre che tutto cambi se vogliamo che tutto resti uguale” diceva appunto il giovane Tancredi nel libro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Con delle subdole operazioni di maquillage, spacciate per necessaria e inevitabile modernizzazione, si vuole proseguire in quella volontà di costringerci e inglobarci sempre di più in quadratini algidi, utili per i numeri delle finanze, ma del tutto inadeguati a noi che siamo, invece, carne viva.
Se l’Italia, come del resto l’Unione Europea, vuole tornare a saper dialogare con le persone e a fare Politica con la maiuscola, deve riportare al centro delle agende il disagio e le esigenze delle periferie, dei disoccupati, degli ultimi. I governi devono sporcarsi per le strade e non pettinarsi nei salotti borghesi della Leopolda. Continuare su questa linea rischia solo di essere funzionale a dare continuo apporto di benzina alla fiamma dei populismi che, in un modo o nell’altro, stanno risorgendo nel nostro continente. Bisogna incanalare la rabbia in percorsi costruttivi e non lasciarla fine a se stessa o, peggio, farla accarezzare da personaggi in cerca di tornaconti elettorali. Questi ultimi, per giunta, non mancano di lasciarci intravedere anche conseguenze distruttive e nefaste. Se vogliamo salvarci, l’“Europa dei popoli” non può continuare a essere semplicemente un’utopia.