È il primo gennaio del 2022. Michele Mariano, ormai settantenne, ripone il camice nell’armadio. Ha gli occhi lucidi, lo sguardo sconfitto: per la prima volta, dopo quaranta anni di servizio, stamattina non andrà al Cardarelli di Campobasso. Oggi, per lui, inizia una nuova vita.
Il dottor Mariano dovrebbe essere in pensione già da tempo invece, nonostante un’età non giovanissima, ha rifiutato il pensionamento per ben due volte. Per lui, quel camice è sempre stato qualcosa di più, una seconda pelle forse o, più realisticamente, la divisa di un supereroe moderno. Fino allo scorso luglio, infatti, Michele è stato l’unico ginecologo non obiettore del Molise. Oggi, a sostituirlo, è la dottoressa Giovanna Gerardi che lo ha affiancato in questi mesi per garantire l’applicazione della Legge 194 in attesa di un sostituto che non è mai arrivato.
Nonostante gli appelli, i titoli di giornale, le storie raccolte e diffuse sul web, entrambi i concorsi pubblici indetti dall’ASREM (Azienda Sanitaria Regionale del Molise) sono andati deserti. Nessuno dei candidati ammessi, infatti, si è presentato alla prova scritta e, così, a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (IGV) resta, adesso, soltanto la dottoressa Gerardi, tra l’altro nell’unica struttura sull’intero territorio regionale dove è possibile abortire.
Ancora nel 2022, il Molise è la regione con il più alto tasso di medici obiettori di coscienza. Parliamo, per dirla con i numeri, del 92.3% dei ginecologi, del 75% degli anestesisti e del 90.9% del personale non medico. Di conseguenza, oltre il 20% delle donne che necessitano di assistenza è costretto a spostarsi altrove o, quando non è possibile, a rinunciare a un diritto che la legge, al contrario, garantirebbe loro. Almeno su carta.
La 194, infatti, stabilisce che ogni regione è tenuta ad assicurare che l’organizzazione dei servizi e le figure professionali prevedano la possibilità di accedere all’aborto. Il fine ultimo è la tutela del libero esercizio dei diritti sessuali e riproduttivi delle donne che può dirsi rispettato soltanto minimizzando l’impatto dell’obiezione di coscienza nelle loro scelte di vita. E, invece, nei fatti, è ancora quest’ultima a determinare gran parte del quotidiano di chi – perché non vuole o perché non può – sceglie di non portare avanti la gravidanza.
Secondo i dati diffusi lo scorso ottobre dall’Associazione Luca Coscioni, in Italia sono settantadue gli ospedali con personale obiettore tra l’80% e il 100% e almeno diciotto quelli in cui una o più categorie tra medici ginecologi, anestesisti, infermieri e OSS è costituita totalmente da antiabortisti. Quattro, invece, sono i consultori. Ciò significa che in queste strutture, per motivi religiosi, etici o di altra natura, gli operatori sanitari scelgono di non eseguire l’interruzione volontaria di gravidanza, sebbene la legge vieti espressamente l’obiezione di struttura. Luoghi di sospensione del diritto, questi, che affollano il Paese da Nord a Sud: Lombardia, Veneto, Piemonte, Marche, Toscana, Umbria, Basilicata, Campania, Puglia, Sicilia, tutte contano almeno un presidio medico dove non si pratica l’aborto. Eppure, nonostante il mancato rispetto della legge avvenga alla luce del sole, non succede niente. Nessuno interviene. Le donne non possono scegliere.
Secondo l’ultima relazione del Ministero della Salute sull’applicazione della 194 presentata in Parlamento l’estate scorsa, nel 2019 sono state notificate 73207 IVG, confermando il continuo andamento in diminuzione del fenomeno (-4.1% rispetto al 2018), riscontrato anche nei primi mesi del 2020. Le riduzioni percentuali più alte si sono registrate proprio in Molise e non potrebbe essere diverso. I dati hanno confermato, però, anche un’altra variazione: secondo quanto riferito dalle Regioni (ma per alcune i numeri sono aggregati) ha presentato obiezione di coscienza il 67% dei ginecologi, il 43.5% degli anestesisti e il 37.6% del personale non medico, valori in leggera diminuzione rispetto a quelli riportati per il 2018 e che presentano ampie differenze regionali per tutte e tre le categorie.
In termini di strutture disponibili, il numero totale di sedi ospedaliere con reparto di ostetricia e/o ginecologia, nel 2019, risulta pari a 564, mentre il numero di quelle che effettuano le IVG è di 356, cioè il 63.1% del totale. Solo in due casi (P.A. Bolzano e Campania) il numero di punti IVG è inferiore al 30% delle strutture censite.
Il Ministero spiega la riduzione delle pratiche di aborto con l’aumento dell’uso della contraccezione di emergenza, vale a dire la pillola del giorno dopo e quella dei cinque giorni dopo per le quali è stato abolito l’obbligo di prescrizione medica per le maggiorenni. Il dottor Mariano, invece, la spiega in modo diverso: «Chi fa aborti non fa carriera. In Italia c’è la Chiesa e, finché ci sarà il Vaticano che detta legge, questo problema ci sarà sempre». Ed è difficile dargli torto. L’interruzione volontaria di gravidanza, insomma, è ancora un tabù, non solo in Molise e non solo oggi.
La 194, in Italia, è sempre stata sotto attacco di politiche conservatrici e patriarcali che ampio spazio hanno dato alla crescita dei movimenti pro vita e a decreti oscurantisti quali quelli targati Pillon. L’aborto è l’aberrazione massima ma, in realtà, è l’intera legge a essere disattesa: l’articolo 9, lo stesso che specifica che gli enti ospedalieri sono tenuti in ogni caso a garantire il servizio dell’interruzione di gravidanza, sia quando sussista un pericolo per la salute della madre sia quando la procedura rientri nei novanta giorni previsti, conferma – come accennavamo – che l’obiezione di coscienza vale per il singolo ma non per l’intera struttura. Prevede, inoltre, la sensibilizzazione dei consultori, così come ribadisce anche il Ministero nella sua relazione. Viene da chiedersi, allora, su cosa vengano dirottati i fondi a essi destinati se si pensa che tali strutture sono sempre meno ed eternamente in affanno perché sprovviste di organico.
I consultori sono, o dovrebbero essere, i servizi territoriali dedicati alla prevenzione e quindi anche alla promozione della contraccezione e dell’educazione sessuale. Eppure, sono depotenziati della teoria, degli approcci e delle politiche che li hanno ideati e resi punti di riferimento. L’ISTAT, in effetti, lo raccontava già lo scorso anno: nonostante un maggior ricorso a metodi moderni (soprattutto pillola e preservativo), non si può ancora affermare che in Italia sia stata compiuta in modo definitivo la rivoluzione contraccettiva, intesa come transizione verso una diffusione di metodi moderni ed efficaci e lo dimostra il fatto che il coito interrotto, ancora oggi, è il terzo metodo più usato per evitare una gravidanza (20% dei casi). Tra le ragioni, c’è l’alto costo dei contraccettivi: se dal 2016, la pillola ormonale è completamente a carico delle donne – persino nei casi di utilizzo terapeutico –, anche profilattici, spirale e diaframma restano un lusso per molti, contrariamente alle norme secondo cui andrebbe garantito l’accesso universale ai servizi di assistenza sanitaria sessuale e riproduttiva, come la Legge 194 o la 405 che – in teoria – favorisce la contraccezione gratuita.
Non solo costi elevati, però, anche la scarsa, scarsissima, conoscenza che chi dovrebbe usufruirne, in particolare i più giovani, ha di questi strumenti. Alcuni studi dimostrano, infatti, che – in assenza di alternative, quale potrebbe essere la scuola – quasi il 90% dei ragazzi cerca su internet informazioni riguardanti la salute sessuale e riproduttiva; la maggior parte di essi non si è mai rivolto a un consultorio.
Era il 22 maggio 1978 quando, per la prima volta, l’Italia depenalizzava l’aborto, disciplinandone le modalità di accesso. Prima di allora, l’IGV era considerata punibile per legge con una pena che andava dai sei mesi ai dodici anni. Oggi, invece, che puniti dovrebbero essere coloro che, al contrario di quanto giurato, non si attengono ai principi morali e civili di rispetto dell’autonomia della persona, a essere in discussione è ancora – e sempre – l’autodeterminazione delle donne, impossibilitate come sono a scegliere per sé e per i propri corpi, per la propria vita. Perché dove non c’è legge applicata, è la cultura giudicante a puntare il dito, a indicare la via, a fare giurisprudenza. E quella, certamente, non è la strada per l’emancipazione. Non è 2022.