Si pensa, a volte, che la morte sia la fine di ogni sofferenza. Non è quello che accade, invece, alla protagonista di O d’amarti o morire, il romanzo di Francesca Guercio, in libreria dal 12 gennaio per la Alessandro Polidoro Editore. La protagonista è una donna in crisi sentimentale che si lancia nel vuoto del Grand Canyon durante una pausa di un viaggio organizzato. Dopo il suicidio, però, Lei non va in paradiso ma si ritrova a condividere, da fantasma, un lungo viaggio in auto insieme a Lui, l’amato che non l’ama e che l’ha abbandonata. L’uomo della vita e della morte.
La conclusione di una storia, insomma, nel romanzo diventa l’inizio di una costruzione definita cantafavole dalla stessa autrice, che da subito ribalta e confonde i canoni classici del racconto, con i capitoli in prosa sempre introdotti da versi. Tutto questo, sia ben chiaro, è svolto attraverso un flusso di coscienza narrativo intriso di malincomicità unita a una ricerca sulla possibile consapevolezza della realtà dei rapporti umani, al di là della loro rappresentazione nella messinscena della vita quotidiana.
La quarantenne protagonista di O d’amarti o morire si presenta come una donna qualunque, che le persone che ha frequentato hanno visto sempre come un’accogliente amica-spalla sulla quale piangere per le loro pene d’amore e altre sofferenze. Lei lavora presso un atelier sartoriale e, un giorno, incontra Lui, un attore di teatro, esempio clinico quasi perfetto di narcisista, incallito donnaiolo, anche se già sposato con una moglie-rifugio usata come protezione contro l’eventuale invadenza delle sue amanti.
La vita della donna cambia quando diventa l’amante di Lui, perché la relazione d’amore invade completamente la sua esistenza. L’ambiente professionale e lavorativo, nel quale la protagonista si ritroverà ad accompagnare il suo amato che non riesce ad amare neanche se stesso, è quello dell’Italia contemporanea, dove quell’ipotesi sulla realtà che afferma che la cultura non dà da mangiare ben presto si rivela come una profezia che si autoavvera. La politica, che talvolta è circondata dal malaffarismo, e gli stessi intellettuali e artisti – tra insofferenza che di rado diventa ribellione e accettazione per motivi di sopravvivenza – la considerano un bene e/o un servizio residuale e non una necessaria e possibile costruzione della qualità della vita individuale e pubblica.
E anche il viaggio che la protagonista fantasma compie per le autostrade e le città della penisola accanto all’uomo che per quasi otto anni ha amato e seguito nella sua vita randagia e diseguale, tra velleità artistiche e più mondana arte d’arrangiarsi, è la rappresentazione di questo mondo sociale e culturale. E nel pendolo jazzistico della narrazione di Francesca Guercio, risulta speculare il microcosmo narrativo delle vicende private a cui ora Lei può assistere come mai le era accaduto, tanto da farle affermare: Non sono mai stata tanto viva come da quando sono morta.
In effetti, la donna che si è suicidata per amore voleva soltanto risolvere i suoi problemi, ma dal momento che questi erano costruiti attorno al legame inspiegabile, ostinato, ossessivo, ma anche viscerale, armonioso, amorevolissimo che aveva e continua ad avere con Lui, quello che le viene concesso – probabilmente da quel Drammaturgo Cosmico, con il quale, prima o poi, dovrà confrontarsi – non è la morte ma l’esperienza. Un nuovo castigo per la sua esistenza sbagliata? No, forse è la triste conferma che amore e morte non sono qualcosa di oggettivo ma esistono solo nell’esperienza di chi li attraversa e il mal d’amore è senza fine.
Francesca Guercio è consulente filosofica e counselor esistenziale e anche attrice e regista teatrale. Si occupa di formazione dal 1999 e ha scritto il saggio Essere e non. Cura e sapere di sé attraverso le pratiche teatrali (Mimesis, 2019). O d’amarti o morire è il suo primo romanzo, dove le conoscenze e le abilità professionali le permettono di rappresentare un’acuta disamina delle relazioni umane e, in particolare, di quelle degli amanti che non sanno bene cosa vogliono gli uni dagli altri, come diceva il filosofo Platone nel Simposio e, quindi, cercano di esprimersi, divinando da un fondo enigmatico e buio, su quella follia a cui noi diamo il nome amore.
La ricerca che porta alla consapevolezza profonda di noi stessi, che ci illumina ma ci fa anche tanto soffrire, passa soltanto attraverso le sconfitte, come ci racconta l’autrice. Ci riesce con la padronanza di chi conosce, da studiosa, la malcelata e intima trama delle esistenze, ma sa bene, da artista, che può farle rivivere soltanto attraverso una narrazione dove realtà e finzione si inseguono, si contraddicono o fanno l’amore, talvolta, per renderci partecipi di quella commedia umana che gli uomini e le donne vivono, tra lo spazio-tempo che va tra la vita e la morte, in storie dove non ci sono né introduzioni né conclusioni.