Il clamore era straziante. Tutti gli occhi si erano alzati verso il sommo della chiesa, ciò che vedevano era straordinario. In cima alla galleria più elevata, più in alto del rosone centrale, c’era una grande fiamma che montava tra i due campanili, con turbini di scintille, una grande fiamma disordinata e furiosa di cui il vento a tratti portava via un limbo nel fumo. Sotto quella fiamma, sotto la cupola balaustrata intagliata a trifogli di brace, due grondaie fatte a fauci di mostri vomitavano senza posa quella pioggia ardente il cui argenteo scroscio risaltava nell’ombra della facciata inferiore.
Era un pomeriggio di metà aprile, uno qualsiasi, fatto di timido sole e nuvole spavalde, il pomeriggio di una primavera che tardava a venire. Per i cattolici segnalava l’inizio della Settimana Santa, per gli altri aveva il sapore stantio tipico del lunedì. Un odore nuovo, però, si mescolava alla sonnolenza da primo giorno, un olezzo che spezzava il respiro fino a prenderne il sopravvento, a dominarlo, a eternare un momento, quel momento, che sarebbe durato ore. Notre-Dame stava bruciando.
Nostra Signora di Parigi, bella come sanno essere soltanto le opere di un tempo che non c’è più, era avvolta dalle fiamme. D’improvviso vulnerabile, sola, per la prima volta spaventata ma comunque fiera, come quella Giovanna D’Arco che aveva visto beatificare tra le sue pareti, una donna che ama e per amore soffre e arde, senza chiedere nulla. Impotente e gigante. Il fumo a coprirle il volto ormai segnato, consapevole che qualcosa stava cambiando, che una storia, la sua storia si apriva a un altro capitolo, il più difficile forse, quello che presagisce la fine.
Ai suoi piedi gli uomini, tanti, tantissimi, milioni, da ogni parte del mondo, a guardarla e a guardarsi bruciare. A soffrire di lei, per lei, con lei, agognando qualcosa che forse non sarebbe mai più stato. Nel petto una ferita strana, nuova, non provata ancora. Non si vede nulla all’esterno di questo fuoco che mi brucia il cuore? Un dolore quasi fisico, un vuoto, una mancanza, l’improvvisa consapevolezza della fugacità di ciò che siamo, di ciò che è intorno a noi, di ciò che crediamo per sempre e invece non lo è mai. In fondo, Notre-Dame in fiamme voleva significare proprio questo: niente dura. Nemmeno noi, soprattutto noi.
Una preghiera religiosa e laica si levava tra le strade di Parigi e del mondo intero. Il fuoco ardeva ogni certezza: l’uomo che aveva sublimato quella straordinaria opera d’arte al cielo, la fatica che lo avvicinava al soprannaturale, il desiderio di lasciare il segno, la smania di restare bruciavano nella notte francese. La precarietà umana veniva fuori in tutta la sua crudezza, una sconfitta insopportabile per chi restava a guardare inerme, incapace di reagire e impossibilitato a farlo. La paura di scomparire si palesava inesorabile.
Niente dura, urlavano quelle fiamme. Nemmeno loro, soprattutto loro, domate dopo un tempo infinito dall’aleatoria legge del più forte. Ma non duriamo nemmeno noi, tantomeno lo smisurato ego di chi vuole il proprio nome scolpito nella storia. Notre-Dame lo ha gridato spietata. Pure adesso che è sopravvissuta. Pure adesso che, ferita, resta in piedi, preservando gran parte di sé e di quella bellezza che ce l’ha fatta amare. Nostra Signora continua a farsi sentire. Siamo di passaggio, ma non lo accettiamo, siamo di passaggio e allora cerchiamo il nemico, bramiamo la battaglia, la resa dei conti, lo scontro costante: combattere, per noi, è l’unico modo per sopravvivere.
L’11 settembre francese, l’Europa che scompare, il simbolo della cristianità che sparisce, Macron, i gilet gialli, gli islamisti. In ognuno di questi l’avversario, il duellante, la necessità egoistica di una vendetta. In nessuno, però, la colpevolezza che, invece, è in noi e in noi soltanto. Persino mentre la cattedrale bruciava cercavamo il pretesto. Ma Notre-Dame non è Parigi, non è la Francia, non è l’Europa e nemmeno la cristianità. Notre-Dame è ciò che l’uomo è capace di fare ma anche di distruggere, rapido come una scintilla che si fa fiamma.
Se avessimo il piacere di esaminare una ad una le diverse tracce di distruzione impresse sull’antica chiesa, quelle dovute al tempo sarebbero la minima parte, le peggiori sarebbero dovute agli uomini. E agli uomini sono dovute tante, troppe tracce, ferite che si sono rivelate mortali. Come per l’Europa o la decantata cristianità. Entrambe spirate, ambedue schiacciate dal peso dell’egotismo. La prima esportando democrazia, la seconda uccidendo o lasciando morire un altro, uguale ma diverso, spesso in nome di un dio che se esistesse non potrebbe accettarlo.
Vasta sinfonia di pietra, per così dire; opera colossale di un uomo e di un popolo, unica e al tempo stesso complessa come l’Iliade e i Romanceros di cui è sorella; prodotto prodigioso del contributo di tutte le energie di un’epoca, ove su ogni pietra si vede impressa in cento modi diversi la fantasia dell’operaio disciplinata dal genio dell’artista; sorta di creazione umana, in poche parole, potente e feconda come la creazione divina a cui sembra aver strappato il suo duplice carattere: la varietà e l’eternità.
Così, Notre-Dame non è crollata, ma a farlo è stato l’uomo, sono stati tutti gli uomini ai suoi piedi, supplichevoli di restare, di resistere, di non lasciarsi andare. Tutti gli uomini convinti che lei, Nostra Signora, potesse salvarli da una fuggevolezza che li rende transitori, sostituibili, labili. Perché l’ombra ai nostri piedi non è altro che la morte che ci portiamo inevitabilmente dentro. Se lo capissimo, forse, la vita stessa farebbe meno male.
E la cattedrale non era per lui soltanto la società, ma anche l’universo, ma anche tutta la natura. Non sognava altre spalliere fiorite se non le vetrate sempre in fiore, altra ombra se non quella del fogliame di pietra che si apre carico di uccelli nel folto dei capitelli sassoni, altre montagne se non le torri colossali della chiesa, altro oceano se non quello di Parigi che frusciava ai loro piedi.