Nostalgie della terra di Mauro Tetti (Italo Svevo) è un romanzo che ha forma d’arcipelago, di mare in burrasca, di galassia, di prisma. Ad aprirne le pagine – che, nelle edizioni della collana Incursioni, sono tutte attaccate e vanno separate, per leggerne il contenuto, come si separano le due valve di un mollusco, prima di risucchiare la polpa salina e gustosa del suo tesoro – si viene trascinati in un’immaginifica cartografia dell’anima che ha tante facce quante quelle del cubo di specchi cercato dal protagonista.
Un protagonista senza nome, senza volto – o meglio: con molti volti diversi – definito dalla memoria di un sogno, dalla febbrile ricerca di un misterioso oggetto comparso negli scritti di viaggio della misteriosa Maddalena, sua nonna, donna straordinaria che solcò i mari tra questo mondo e quello del mito, a metà strada fra questa terra e le stelle di galassie lontane. Per trovarlo, abbandonerà l’amata Naira, affetta da una forma particolarmente aggressiva di dermatite, che affascina il protagonista più d’ogni altra cosa: come se le squame della pelle di lei formassero una scia di cometa, come se il fatto di sgretolarsi al tocco la rendesse più una creatura del sogno, una sirena che essicchi al sole, che non una donna vera. Per trovarlo, circumnavigherà la Sardegna, attraversando con i compagni luoghi fantastici originati da lingua dimenticata.
È, la lingua, un centrale elemento di questa storia onirica: per l’ovvia ragione che una storia che non si faccia linguaggio resta ombra, bruma inafferrabile che cela alla vista isole e isole di narrazioni. Dalla lingua, dai nomi, hanno origine mondi. E, nella Sardegna immaginata da Tetti, i nomi dei luoghi sono anticipazione di paesaggi e suggestioni oniriche: Mortorio, l’isola sul suolo della quale non si distinguono i vivi dai morti, Cavolara, i cui abitanti venerano un albero dalla folta chioma talmente antico da non recare i cerchi concentrici del tempo sulla corteccia, l’Isola Rossa, dalle scogliere rosse come sangue e le spiagge di corallo. Il viaggio prosegue verso le Bocche di Bonifatzio, al di là delle quali finisce il mondo.
Al centro del romanzo c’è l’irrequietezza, il tormento, la sensazione di malinconico malessere che manchi qualcosa, che i nostri viaggi, pur proiettandoci verso il futuro, siano immancabilmente rivolti all’indietro, a vite che abbiamo già vissuto e che non siamo più in grado di ricordare, tesi allo stremo per sfiorare un mondo remoto e che forse non è mai neppure esistito.
Il narrato del protagonista riflette quest’inquietudine nelle oscillazioni tra lucidi incubi del suo presente e allucinazioni mistiche del passato. Scongiurano questa evanescenza la tangibilità del diario di Maddalena, consultato come un testo sacro, protetto come una reliquia, e le carte nautiche tatuate sulla pelle grinzosa e segnata dal mare di lei, culminanti nel cubo di specchi fra le scapole: tesoro di Flint, balena bianca del protagonista e dei suoi compagni di viaggio Salif, il capitano Pèrez, la Rondine. Si dice che chi si specchi nel cubo veda in esso svelata la sua verità, una visione che al contempo pacifica il cuore e fa ribollire il sangue, che demolisce la ragione, annulla tempo e spazio. Una volta che si è guardato in esso, ciò cui si è assistito non abbandona più la mente, vi imprime il suo marchio: ed è forse per questo che, sulla pelle di Maddalena, il cubo non è un tatuaggio ma una cicatrice.
Chi sceglie d’affrontare la lettura di Nostalgie della terra come se stesse immergendosi in un romanzo d’avventura potrà agilmente figurarsi il cubo come un diamante, una grossa pietra preziosa che cela bellezza e potere tra le sue mille facce. Ma le interpretazioni sono molteplici come i lati del cubo di specchi. Come le storie, per diventar vere, hanno bisogno d’essere raccontate, anche il cubo di specchi, per mostrare qualcosa a chi lo cerca, presuppone che qualcuno vi si rifletta. Di per sé, il cubo non è: acquisisce una definizione, si fa reale, quando rimanda un’immagine. Trattandosi, però, di un cubo, il riverbero degli specchi tenderà a distorcere, contorcere, comprimere o dilatare ciò che vede. Rappresentando, poi, un solido finito, il cubo è un contenitore che racchiude le immagini e le sintetizza in una realtà caleidoscopica che non ha fine o inizio. Quasi a voler evidenziare questa peculiarità, il romanzo si svolge contemporaneamente su più livelli temporali diversi.
Non si può propriamente parlare di flashback o flashforward perché, in realtà, le regole del tempo lineare terrestre sono completamente annullate. Così, l’inizio e la fine dell’avventura sembrano avvenire all’unisono, la vita marina di Maddalena e Glauco sembra proseguire da sempre. Ne consegue che nel cubo non possa esistere la morte. Non può, però, per lo stesso principio, esistere la vita. E qui sta lo scarto nostalgico che ritroviamo anche nel titolo: i paesaggi, le storie, le avventure annotate da Maddalena nel suo taccuino parlano di un posto che esiste e, allo stesso tempo, non esiste più. Il protagonista e i suoi compagni di viaggio, che più di una volta ci spingono a chiederci se non siano poi proiezioni distorte del protagonista stesso, attraversano simultaneamente un mondo stravolto.
Si fa spesso riferimento a un’occupazione militare, all’esplosione di ordigni per le esercitazioni, all’invadenza dei controlli dell’esercito e ai soldati ubriachi per le strade dei grandi centri cittadini. L’occupazione ha distrutto i paesaggi, riversando immondizie negli oceani, ha deturpato le città, in cui scorrono rivoli di urina e vomito frammisti ai rimasugli alcolici di una nottata in spiaggia e le blatte si affacciano a centinaia dagli scarichi delle abitazioni, l’ululare del vento è stato vinto dai rumori routinari dei mitragliatori. Si potrebbe pensare a un’imprecisata catastrofe culminata con la militarizzazione. Oppure si potrebbero intravvedere, sotto le divise dell’esercito di occupazione, frutto di un’allucinazione allegorica, i nostri stessi abiti: quelli di una società che consuma tutto, perfino i paesaggi. I colpi di mitraglia diventano il suono assordante della musica della festa, la guerra e le morti nel Mediterraneo, la tragica condizione dei mari e delle persone che lo attraversano in cerca di rifugio trovandovi, invece, la tomba.
All’inizio di ogni capitolo, si trovano le coordinate precise del viaggio. Servono, forse, per aiutare il lettore a non smarrire la via, venuto a mancare ogni riferimento temporale rilevante. Il tempo, in Nostalgie della terra, è tutt’uno con lo spazio, come avviene fuori dall’atmosfera. Nel rovesciamento del cubo, il mare si tramuta nel nero abisso dell’universo, puntellato di astri e comete che ne sono gli arcipelaghi e le forze dirompenti. Più di una volta, quello che accade in acqua viene accostato in un parallelo ai moti celesti: molte stelle continuano a riflettere la loro luce sulla Terra perché la distanza che ci separa è talmente ampia che noi siamo in grado di percepirne la morte, l’assenza solo dopo anni, secoli. Così, quello che osserviamo e ciò che in realtà è si rivela tragicamente falso, la proiezione di un cubo, l’esperienza nel presente di un passato troppo immenso da concepire. E cos’è la nostalgia, se non l’anelito verso qualcosa di cui conosciamo le coordinate a memoria, pur non potendolo raggiungere?