Jè bell, ma non abball è un’espressione idiomatica tipica di alcune contrade dell’entroterra lucano e dunque anche di Lavello, cittadina abitata da circa quattordicimila anime in provincia di Potenza, collocata a nord della Basilicata, in prossimità del confine con la vicina Puglia, e soffocata dalla sua bella corona di pale eoliche, oltre che dalla presenza dell’inceneritore ex-Fenice situato a ridosso dell’insediamento FCA di Melfi (PZ), che sputa diossine e produce tumori, così come l’adiacente fabbrica con testa americana e piede piemontese schiaccia da 23 anni quei territori succhiando energia, da quella elettrica a quella umana, per produrre automobili.
Stiamo parlando di una locuzione idiomatica che letteralmente potrebbe essere tradotta come È bello, ma non balla e il soggetto sarebbe da dare per sottinteso a seconda del contesto in cui la stessa frase è usata. Una traduzione meno vincolante ci consentirebbe, invece, di interpretarla anche in chiave un po’ più generale come Non tutto è bello ciò che balla, ovvero Non tutto è oro ciò che luccica ed ecco che, forse, il senso si aprirebbe a una più semplice e intuitiva interpretazione. Ma se così è, se già esiste una costruzione verbale sufficientemente arguta e utile a sostenere che non sempre tutto ciò che appare positivo o di buon auspicio necessariamente lo è, perché sostituire l’oro con il ballo? Semplice, perché siamo a Lavello, patria del Carnevale omonimo, fatto di maschere danzanti dalle sembianze demoniache che, girovagando a gruppi per le vie della città, saltano di festino in festino con il solo scopo di sedurre dame e gentiluomini elargendo dolciumi e caramelle in cambio di un po’ di buona musica e qualche piacevole passo di ballo liscio, al chiuso del calore (dis)umano di ambienti casalinghi pieni zeppi di persone che attendono con trepidazione di essere sollevate dalle proprie sedie, così come dalle proprie preoccupazioni, ed essere accolte tra le braccia volteggianti di un Domino, nome della maschera tipica locale.
Peccato che tutto questo a Lavello si realizzi non solo in periodo di carnascialesco furore, ma da qualche tempo anche durante il periodo estivo, esattamente nel mese di agosto, rientrando a pieno titolo tra le iniziative di quella che viene definita con altisonante e boriosa soddisfazione Estate lavellese. Come quella promossa anche per il 2018 e che, lungi dall’essere un’equilibrata operazione di carattere culturale, volta ad aprire il territorio alle istanze più innovative e cosmopolite provenienti dal resto d’Italia, d’Europa e del mondo, si presenta per ciò che inevitabilmente è e ha confermato di essere anche quest’anno, ovvero un’accozzaglia di reverenziali ed autoreferenziali proposte sconnesse e mal ricombinate tra loro al punto tale da far apparire il populismo pentastellato meno rumoroso dello starnuto di un moscerino all’aria aperta, la cafonaggine propria delle sagre leghiste di bossiana memoria come connaturata ai caffè parigini di fine Ottocento e Cetto La Qualunque un gigante di fulgida e specchiata filantropia.
In ogni caso, analizzando il calendario proposto, al netto di alcune sparute proposte modestamente meritorie e scarsamente finanziate quali salotti letterari, concerti e una borsa di studio, risulta piuttosto evidente come il grosso dei contributi sia stato assegnato a un’associazione in particolare – più qualche altro sporadico soggetto –, la quale ha potuto liberamente realizzare le proprie iniziative su di una piazza interdetta in anni precedenti ad altre organizzazioni, in quanto punto di raccolta dei flussi cittadini in caso di calamità nell’ambito del piano di sicurezza urbana di cui la municipalità si è giustamente dotata (deliberazione n. 10 del 30/01/2017). Ma, sic stantibus rebus, allora perché e sulla base di quale deroga tale spazio viene reso oggi nuovamente agibile e fruibile?
È tutto in quest’ultima domanda inevasa il nocciolo di una questione apertasi l’11 giugno 2018, ovvero all’indomani delle rispettabili, in quanto democratiche, scelte elettorali compiute da parte della maggioranza degli abitanti della piccola città lucana, caduta nuovamente preda di un PD locale che, anche questa volta, non ha di certo mancato di fare molto bene il suo mestiere. Eccola dunque la denuncia, mossa solo da semplice capacità di intendere e volere, dalla forza della libertà e dalla voglia di riscatto da classi non dirigenti che si fanno sineddoche di un malcostume generale imperversando, salvo rare eccezioni, per tutto il Sud Italia e che da decenni, attraverso piccoli, grandi e leciti “ringraziamenti” si (ri)costruiscono di volta in volta verginità e consenso agli occhi della collettività, assecondandone le bassezze anziché elevarne le capacità critiche – e dunque le sorti – producendo, quale fatale ancorché funzionale esito di un tale processo di perpetuo riciclaggio del medesimo, l’affossamento sistematico, o ancor peggio sistemico, delle energie più fresche di ogni territorio, costringendo la parte più vibrante della popolazione a rinnegare – all’insegna del se sono partito è perché non ho partito – le proprie origini e a vergognarsi di essere quel che si è stati. Questo è il trucco, quindi, questo è l’espediente, questo è il grimaldello, il cavallo di Troia, il dramma che si può risolvere solo lanciando un monito a tutti quei giovani che ancora non l’hanno fatto: sollevatevi o fuggite, poiché l’alternativa a un tale gioco al ribasso è solo l’indigenza intellettuale e spirituale, nascosta come polvere sotto tappeti di pessima qualità culturale e, dunque, materiale di una politica che vi vuole servi più che servitori, quaquaraquà anziché ribelli, sudditi anziché donne e uomini liberi di poter dire no, grazie.