… mi sono terribilmente spaventata, ebbi un solo pensiero, che stessero venendo, chi lo sai bene…
Somigli a quel famoso attore tedesco. Tra le tante, conservo gelosamente anche le sue foto, tuttavia, per quanto mi sforzi, non riesco a rammentarne il nome. Sto cercando di ricordarmene da quando siete arrivati. Non so, è buffo, ma è stata la prima cosa alla quale ho pensato. Sarà che mi sono svegliata da poco e ancora non riesco a mettere a fuoco. Sento le loro urla strozzate in gola, giovani donne, anziane, madri disperate che si attaccano ai figli come alla ricerca di una qualche forma di conforto. Ma conforto, qui, non ce n’è. Io, mentre stringo il vestito della mamma, lo cerco in te, in quegli occhi che non sorridono, nel ricordo del poster che ti somiglia in cameretta.
Mi stai guardando. Fisso. Non distogli lo sguardo nemmeno per un attimo. Arrossisco, ma supero la timidezza. In fondo, è la giornalista che voglio fare da grande, niente impaccio.
Chi sei? Descriviti in poche parole.
«Il mio nome è Adalbert Werner. Nato a Berlino e trapiantato ad Amsterdam, mi hanno insegnato a essere un gatto. Cerco luridi topi bastardi che si inabissano nelle viscere di questa città per nascondere la loro inferiorità congenita.»
Topi? Inferiorità congenita? Di cosa stiamo parlando?
«Di quelli come voi, come te. Non mi vedi? Sono un figlio della grande Germania, io. E voi degli stupidi, sporchi ebrei.»
Anche io sono tedesca, sono nata a Francoforte. Ma perché dici questo? Che cosa ti abbiamo fatto?
«Bada a come parli, tu non sei tedesca. Gli ebrei sono come i vermi che si annidano nei cadaveri in dissoluzione. L’ebreo è colui che avvelena tutto il mondo. Se l’ebreo dovesse vincere, allora sarà la fine di tutta l’umanità, allora questo pianeta sarà presto privo di vita come lo era milioni di anni fa.»
Ti dico una cosa: per conoscere bene la gente bisogna averci litigato seriamente almeno una volta. Solo allora puoi giudicarne il carattere. Hai mai litigato o, più semplicemente, parlato con un ebreo?
«Io con gli ebrei non ci litigo, tantomeno ci parlo. Gli ebrei devono stare zitti.»
Eppure, stai parlando con me, che sono solo una ragazzina. Non siamo malvagi. Forse, dovresti provare a conoscerci. Ti sorprenderebbe scoprire che non siamo poi così diversi. Non esiste un modo comune di essere, ma chi scegli di essere. Hai mai tenuto un diario segreto?
«No, mai. È una cosa da femminucce sciocche.»
Sbagli, dovresti provare. Io, ad esempio, ho Kitty – questo il nome che ho scelto per il mio – che accoglie ogni mio sfogo. Scrivo quando sono triste, ma anche quando gioisco. Sono una persona felice di natura, mi piace la gente, non sono sospettosa e voglio vedere tutti felici e insieme: una volta ho scritto così, mi ha fatto sentire ancora meglio.
«Anche io credevo di essere una persona felice. Da quando tutto questo è iniziato, però, non ne sono più convinto. Hitler, gli ebrei, questi viaggi che durano sempre troppo. Da bambino sognavo la divisa perché volevo un mondo giusto. Oggi non riesco più a vedere il confine tra ciò che è lecito e ciò che non lo è. Mi chiedo spesso che direzione stia prendendo questa storia, la mia vita, che uomo diventerò. Credevo di avere tutte queste risposte. Ora guardo i tuoi occhi, così scuri e profondi, e non vedo differenze tra noi. Ma io sono ariano… Un vero ariano. Smetti di confondermi.»
La verità è tanto più difficile da sentire quanto più a lungo la si è taciuta. Hai mai provato a dire queste cose ad alta voce?
«Non servo il mio Paese per dire cose. Lo servo per difendere la mia gente. Le persone che vogliono liberare il popolo tedesco dalla sua condizione attuale non devono sforzarsi a pensare quanto sarebbe meglio se questa o quella cosa non ci fosse, devono cercare la maniera di distruggere ciò che c’è. Le parole del mio Führer ti servano da risposta.»
Le parole del tuo Führer sono sue, non tue. Non ho lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare. Me li tengo stretti, malgrado tutto. Malgrado l’alloggio segreto, la luce del sole che quasi non ricordo quali colori restituisca alla natura, le lunghe ore di silenzio assoluto con il solo rumore della paura che ci avreste scoperti. Semplicemente non posso fondare le mie speranze sulla confusione, sulla miseria e sulla morte. Vedo il mondo che si trasforma gradualmente in una terra inospitale; sento avvicinarsi il tuono che distruggerà anche noi; posso percepire le sofferenze di milioni di persone; ma, se guardo il cielo lassù, penso che tutto tornerà al suo posto, che anche questa crudeltà avrà fine e che ritorneranno la pace e la tranquillità.
«Hai mai visto il mondo? Quello vero, intendo. Non le quattro mura tra le quali ti sei nascosta. Meno illusioni ti crei, meglio vivi. A nessuno interessano gli ideali dell’altro, quelli di un’ebrea ancora meno. Non puoi averne. Limitati a sperare di arrivare a domani.»
Viviamo tutti con l’obiettivo di essere felici; le nostre vite sono diverse, eppure uguali. Se può aiutarti, continua a guardare questi occhi, ferma questa camionetta, riportaci indietro. Esci nei campi, nella natura, al sole. Esci e cerca di ritrovare la fortuna dentro di te; pensa a tutte le belle cose che crescono dentro e attorno a te e sii felice. Tutto quanto sta accadendo oggi, nel mondo, è una grande ingiustizia, ma tu puoi fermarla. Nonostante tutto io ancora credo che la gente sia davvero buona nel proprio cuore.
«Nessuno è davvero buono in questo mondo, nemmeno io che, mentre ti parlo, ti condanno per sempre. Non fidarti di me, sbaglieresti. Anche questa volta arriverò a destinazione e lo rifarò. Non ho scelta, siamo tutti morti che camminano. Prima o poi tutto questo finirà, voglio solo arrivare al capolinea ancora intero. Dici che siamo chi scegliamo di essere, ma in guerra non funziona così: o vivi o muori. Io non mi lascerò andare.»
Avrei voluto dirti queste e tante altre cose, ma non mi guardi più. Di colpo, sento di nuovo la voce della mamma, il respiro di Margot che si fa sempre più pesante. Credo di essermi addormentata o perduta in una specie di trance. Vorrei saper piangere come la maggior parte delle persone che sono qui dentro, ma poi penso che rischieremmo di annegare nelle nostre stesse lacrime. Chissà, forse sarebbe un bene per noi tutti.
È davvero bello quell’attore, questo lo ricordo alla perfezione. Tu anche di più. Sembri più giovane di lui, quanti anni avrai, venti? Probabilmente sei un coetaneo di Peter. Potresti essere come un fratello maggiore per me, niente di più, e non perché sono ancora troppo piccola, come mi ripetono fino allo sfinimento, ma perché ho già promesso il cuore a un altro. Non vedo l’ora di donarglielo, anche se qualcosa mi dice che non succederà tanto presto.
Presto. È questa la parola che rimbomba nella mia testa. È presto. Presto per venire via con te, con voi, per lasciare quella soffitta, per separarmi da papà. Da quant’è che non lo vedo? Saranno al massimo un paio d’ore, credo, sembra passata una vita. Stavo per chiedergli di rispiegarmi quell’esercizio di matematica che ancora faccio fatica a risolvere. Invece, siete piombati voi. Sei bravo in matematica? Forse, non lo risolverò mai. Forse, sto correndo oltre misura. Eppure, non ho la sensazione che sia troppo presto per avere paura, quanto vorrei che lo fosse.
Ho vagheggiato un sacco di volte questo momento. Nella mia testa, però, succedeva sempre di notte. Quei passi, lo scaffale rotante, gli stivali pesanti, l’accento dall’eco di Francoforte, il frastuono delle lacrime ingoiate, il silenzio dei pensieri in fuga in preda al panico. Credo che ognuno di noi, in quel rifugio, si sia chiesto, ogni sera, se al mattino sarebbe stato ancora lì. Nei miei incubi, in quelli che facevo fatica a raccontare persino a Kitty, mi vedevo con indosso lo stesso pigiama stinto, provandone un profondo imbarazzo, soprattutto perché Margot ne aveva uno bellissimo, come appena comprato. I capelli, invece, quelli di entrambe, erano sempre raccolti in una treccia. Lo ricordo bene, qualcuno di quegli uomini mi afferrava da lì. Stamattina non ce n’è stato bisogno, vi ho seguito senza opporre resistenza alcuna. Tutti noi lo abbiamo fatto. In fondo, ho come l’impressione che vi stessimo aspettando. Vorrei solo che questo viaggio non finisse mai. Non penso a tutta la miseria, ma alla bellezza che rimane ancora.
Dove sei, Kitty?