Dal 5 ottobre 2017, data in cui il New York Times ha sollevato il caso Harvey Weinstein, non c’è stato giorno in cui donne, del mondo dello spettacolo e non, non abbiano denunciato episodi di abuso verbale e fisico che hanno dovuto subire sul luogo di lavoro: agricoltrici e operaie stanno gridando a gran voce le loro storie, di soprusi e violenze, che le perseguitano da anni e che finalmente hanno trovato il coraggio di raccontare grazie all’esempio dato dalle loro sorelle attrici.
Tuttavia, se numerosi sono stati coloro che hanno accolto con solidarietà le accuse di queste donne, fondando associazioni come Time’s Up che cercano di evitare che eventi del genere si ripetano e ci sia bisogno di raccontarli, innumerevoli sono state le persone che hanno imputato alle vittime l’inutilità dei loro racconti, affermando che, ormai, ad anni dagli avvenimenti, non avessero più alcun diritto di denunciare.
A quanti d’accordo con questa opinione vorrei chiedere il permesso di controbattere raccontando i pensieri di una giovane donna.
Sono una ragazza di 24 anni. A breve finirò l’università. Dovrò affrontare i primi colloqui di lavoro e questo mi fa paura. Ovviamente, il timore consiste in parte nel fatto di non sapere se effettivamente sarò in grado di mettere in atto tutte le capacità che ho acquisito con anni di studio e, in parte, anche in altro. La mia angoscia, infatti, sta nel relazionarmi a uomini che potrebbero vedermi non come una persona con qualità intellettive, ma solo come un corpo da ammirare e usare a loro piacimento. Per questo, ai colloqui dovrò stare attenta a non dare l’impressione sbagliata, a non essere fraintesa, dovrò prestare attenzione alla profondità del mio scollo, che non potrà essere troppo pronunciato, e all’orlo della gonna, che non potrà essere troppo corto. D’altronde, il confronto con colleghi universitari di sesso opposto al mio mi ha confermato che molti uomini credono che una donna ottenga ciò che ottiene nella sua vita professionale solo per la sua prestanza fisica e io, di me, non voglio che si pensi questo. Indosserò, quindi, una camicia accollata e una longuette che per niente mi valorizza.
Sono giovane e ambiziosa, voglio avere un futuro, voglio arrivare in alto. Come agirei, quindi, se una persona mi offrisse il lavoro dei miei sogni, quello in cui farei ciò che mi piace e che mi permetterebbe di arrivare in cima, di guadagnare abbastanza da poter vivere la vita che sogno, ricca di viaggi e avventure? Ovviamente lo accetterei. Ma se in cambio quest’uomo mi chiedesse di cedere alle sue avances, di diventare la sua bambola, quella da usare per soddisfare le sue voglie, accetterei? No, non lo farei. Ho la mia integrità, il mio codice morale che mi impedisce di cedere alle ingiustizie, un codice morale che mi ha fatto combattere per tante cause perse in partenza. Rifiuterei quell’offerta, perderei l’impiego che più desidero e conserverei la mia integrità. Denuncerei persino quell’uomo che avrebbe cercato di prendersi il mio corpo e la mia dignità. Forse molti non crederebbero alla mia parola, in fondo, non ci sarebbero testimoni, saremmo solo io contro lui. Ma sì, parlerei lo stesso.
Parlerei? Devo essere onesta con me stessa, probabilmente non lo farei. Sono sicura che rifiuterei la sua offerta, ma non la racconterei subito. D’altra parte, solo pochi giorni fa non sono riuscita a rispondere a un uomo che mentre gli passavo davanti ha fatto un apprezzamento sulle mie gambe. Un apprezzamento che mi ha provocato un disagio, che mi ha fatto sentire un oggetto, che mi ha fatto vergognare di portare una gonna. Mi ci è voluto un po’ di tempo per capire che in realtà se indossavo un abito corto e le mie labbra erano tinte di rosso non facevo nulla di errato. È stato quell’uomo ad aver sbagliato: come può qualcuno che potrebbe essere mio padre vedermi solo come un paio di gambe? A distanza di ore la rabbia che ho nei suoi confronti non accenna a diminuire, anzi cresce, poiché per me quel signore è diventato il simbolo di un sistema in cui le donne vengono viste come un corpo, vuoto, senza anima, né intelletto. Sono arrabbiata, ma non solo con l’uomo in questione, anche con me stessa, perché dentro si sta facendo strada la consapevolezza che avrei dovuto ribellarmi a quel commento e, invece, non l’ho fatto. Vorrei che quella persona capisse cosa significano per me, ragazza, le sue parole, vorrei farla vergognare, urlarle contro la repulsione che provo, ma non posso farlo. È troppo tardi. Non è davanti a me, c’è solo un computer.
Sono giovane e sono ambiziosa, ma non ho avuto il coraggio di ribellarmi perché sono anche fragile e insicura. Sto parlando solo ora, dopo che sono passati giorni da quando mi sono sentita sporca per la mia gonna. Sto parlando solo ora che l’uomo non mi può sentire.
Se qualcuno mi chiedesse di essere soltanto un corpo seducente, quindi, probabilmente non accetterei il lavoro dei miei sogni, ma non posso affermare che subito denuncerei colui che me l’ha offerto. Se ci ho messo più di cinque minuti a elaborare che non facevo nulla di sbagliato nell’indossare una gonna e nel portare un rossetto, di certo, ci metterei settimane a capire che quell’impiego non mi è stato proposto in quel modo perché l’unico valido o che non sono io difettosa delle qualità fisiche o intellettive che occorrono a svolgerlo. Ci metterei delle settimane intere per elaborare il tutto e dei mesi prima di raccontarlo.
Sono giovane, sono ambiziosa, ma anche fragile. Sono come erano dieci anni fa le vittime che oggi stanno parlando. Come me loro sono state giovani, ambiziose e impaurite, dubbiose delle proprie qualità. Come me non hanno subito avuto il coraggio di sfogare. Hanno dovuto prima interiorizzare, acquisire la consapevolezza che una donna può essere femminile, capace e intelligente allo stesso momento, che se ci si allunga le ciglia con il mascara non vuole dire che si rinuncia alla bravura. Come me hanno dovuto elaborare prima di denunciare, prima di capire che si può alzare la voce. Per questo io non le condanno, e nessun altro dovrebbe farlo.