Li hanno operati a terra, senza anestesia, tra le macerie di quel che resta di un ospedale e di un luogo, un fazzoletto d’Oriente, chiamato Striscia di Gaza. Li hanno operati in guerra, tra corpi mutilati, sventrati, esanimi, nella speranza che sopravvivessero, almeno loro, all’orrore, a quello che l’algoritmo non vuole si chiami per nome: genocidio.
Ma a cosa sta assistendo il mondo se non, recita Treccani, alla sistematica distruzione di una popolazione, una stirpe, una razza o una comunità religiosa? A cosa sta assistendo se non alla volontà di sterminare ogni qualsivoglia forma di vita che non sia israeliana? A cosa stiamo assistendo se non alla fine dell’umanità?
In poco meno di due settimane, Israele ha lanciato più bombe di quante non ne siano state sganciate in un intero anno in Afghanistan, molte di più di quelle lanciate in Ucraina. In poco meno di due settimane, i morti civili hanno superato le quattromila unità. A Gaza è stato imposto assedio totale: quasi due milioni di abitanti, di cui un milione e duecentomila rifugiati, sono stati espulsi dalle loro case e dalle loro terre, da un luogo dove le macerie, la povertà e le bombe avevano già trovato accoglienza.
Israele ha tagliato carburanti, gas, elettricità e acqua, là dove otto persone su dieci sopravvivono grazie agli aiuti umanitari, oggi in attesa di attraversare il Valico di Rafah mentre i palestinesi muoiono di bombe e di fame, di sete e senza medicinali. Tutto questo, ufficialmente, come conseguenza dell’attacco inaudito di Hamas dello scorso 7 ottobre.
Non serve essere esperti di geopolitica per capire che non è vero, che non si è dinanzi a una – seppur inaccettabile – vendetta bensì a un piano preciso, a una volontà che non si è esaurita nel tempo ma acuita almeno in termini governativi e internazionali. E quale momento migliore, se non questo, all’indomani di una pandemia, nel bel mezzo di una recessione senza precedenti, alla vigilia di europee che si riveleranno fondamentali per i populismi dalle ossa rotte e, soprattutto, delle presidenziali USA? Maledetto effetto farfalla.
Non serve nemmeno essere esperti di comunicazione per capire quanto – e in che direzione – si sta spingendo il mondo, l’informazione, l’opinione pubblica, nelle piazze compatta a favore della pace e della causa palestinese – e per questo, spesso, in manette (a memoria futura, gli attivisti arrestati sono anche ebrei che gridano non in mio nome) – ma sulle piattaforme online polarizzata, violenta, incattivita.
Cryopoint, gruppo di business intelligence, ha dichiarato che nella scorsa settimana il numero di contenuti falsi sul conflitto Israele-Hamas è aumentato del 10mila% rispetto all’intero 2023. Un dato enorme che dovrebbe preoccupare chiunque si informi, anche, sul web. Praticamente ognuno di noi. La guerra, si sa, va da sempre di pari passo con la disinformazione, tuttavia con l’avvento di internet e dei social – che si credevano un luogo per condividere momenti più o meno futili del proprio quotidiano – questo camminare insieme si è fatto più radicato e subdolo che mai.
Il motivo è presto detto: quella che, purtroppo, si spaccia per piazza pubblica e di dibattito è, in realtà, un’azienda in mano a privati, uomini tra i più ricchi del mondo e, nel caso di X (Twitter), nelle mani del magnate per eccellenza: Elon Musk, uno che in quanto a disinformazione detiene un altro primato. Non a caso, con il suo arrivo la piattaforma è fortemente cambiata, privilegiando l’engagement dei contenuti all’informazione. E cosa funziona meglio dell’emotività? Cosa coinvolge, indigna, infiamma gli utenti più di una notizia – subito smentita – come quella dei bambini decapitati da Hamas?
La maggior parte dei contenuti falsi legati a questa guerra è partita da X, la stessa piattaforma su cui ha scelto di comunicare Israele in via preferenziale. Da anni, l’esercito oggi di Nethanyau è considerato la forza armata più avanzata nella comunicazione social. Come spiega Francesco Oggiano nel suo podcast Closer, la nascita di questo fenomeno è da ricondurre a due eventi: il primo è datato 2006, quando Hezbollah pubblica il montaggio di un attacco a una nave israeliana che trova subito grande riscontro, mentre gli avversari non sanno rispondere; il secondo è del 2010, quando la Gaza Freedom Flotilla prova a superare il blocco navale, subendo una reazione molto violenta da Tel Aviv, e le immagini circolano sui social per mano degli attivisti. Israele – che, ancora, fa fatica online – sceglie quindi di investire 15 milioni di dollari nella comunicazione militare. Oggi l’esercito israeliano è presente su più di dieci piattaforme in quattro lingue con diversi milioni di follower e contenuti che, quando non raccontano la guerra, dipingono il volto buono della divisa, nel tentativo di creare empatia.
Ma quale empatia, quale simpatia, quale volto buono? Quello di chi si apprestava a condividere, in otto ore, ben sette contenuti per accusare Hamas del lancio di un razzo che ha colpito un ospedale? Era davvero questa la cosa più importante in quel momento? O, forse, soccorrere i civili, i bambini rimasti orfani, i medici costretti a operare nel nulla, con nulla? Qual è il volto buono di chi uccide, tortura, massacra? Di chi lascia che i cadaveri vengano ammassati nei frigoriferi dei gelati per non decomporsi al sole? Qual è il volto di chi minaccia un giornalista in diretta tv soltanto perché sta documentando, dunque facendo il suo lavoro? Esiste?
In guerra, la prima vittima è la verità, si dice sempre così. Eppure, mentre scrivo questa frase, mi torna in mente un cartello che alcuni manifestanti ebrei, poi arrestati, sventolavano ieri nelle strade d’America: non è una guerra se una sola nazione è dotata di esercito e social, aggiungerei io. Se il portavoce del governo di quello Stato pubblica un tweet per rivendicare l’attentato di un ospedale – un crimine contro l’umanità – e poi lo cancella rapido. Israele che accusa Hamas, Hamas che accusa Israele, gli Stati Uniti che hanno le prove dell’innocenza di Netanyahu e i palestinesi che muoiono, muoiono, muoiono.
Non è guerra se le organizzazioni studentesche di Harvard prendono una posizione netta contro Israele e, per questo, le aziende che vorrebbero assumere alcuni degli studenti più brillanti ci ripensano, rivalutano le offerte di lavoro, li costringono a prendere le distanze dalle proprie opinioni. Non è guerra se condannare le violenze significa automaticamente essere pro-terroristi o, peggio, antisemiti. Non è guerra se Meta, che gestisce Instagram e Facebook, sta mostrando sempre meno i contenuti che raccontano Gaza. Si chiama shadow ban, una messa nell’ombra di materiale che in qualche modo si reputa inopportuno. E cosa c’è di più inopportuno di un popolo che deve sparire? È, questa, guerra o genocidio?
Motaz Azaiza, fotoreporter palestinese, scrive: My photos traveled the world but my feet couldn’t touch my Homeland. Le mie foto hanno viaggiato per il mondo ma i miei piedi non possono toccare la mia patria. Il nostro obiettivo, oggi, è che la sua testimonianza, i suoi racconti, le sue foto non si perdano, non smettano di viaggiare per il mondo e ovunque vorranno. I suoi piedi di toccare la nuda terra di casa: la Palestina libera.