Non dite che non abbiamo niente è un libro elegante. Ogni parola occupa uno spazio inequivocabilmente suo e risulta insostituibile, brilla di luce propria come una gemma incastonata tra i fili d’oro di una lunga collana. Quelle stesse parole, però, sono dotate di un’ambiguità intrinseca, un significato diverso che le fa risplendere di un bagliore nuovo.
Madeleine Thien sfrutta l’equivocità degli ideogrammi cinesi per narrare la storia potente e squisitamente viva di una famiglia testimone dell’ascesa e del declino di Mao Zedong. Proprio come avviene per il significato doppio degli ideogrammi, il racconto della vita del compositore Passero e del pianista Kai, pur dipanandosi negli interstizi di una storia più grande (quella con la “S” maiuscola), è allo stesso tempo margine e fulcro di una Cina disorientata e riplasmata dal regime comunista.
Le parole e il loro potere diventano, dunque, lo strumento prediletto dalla propaganda. Termini quali critica e cultura si spogliano della propria connotazione neutra e diventano qualcosa d’altro: l’esercizio della libertà d’espressione attraverso il pensiero critico si trasforma in bieca condanna; la cultura, un tempo capace di appianare le differenze di classe, è ora appiattimento di estro creativo. Le parole e il loro potere ambiguo sono, però, anche e sempre, strumento prediletto delle resistenze. Assistiamo, così, alla danza beffarda dei vocaboli in maschera che celano, in barba a ogni censura, coordinate di nascondigli, notizie su familiari caduti in disgrazia e dichiarazioni d’amore.
La narrazione di Madeleine Thien, delicata e decisa, scava caverne profonde nel cuore del lettore. Con tenera eleganza tratteggia i personaggi del libro e ne intreccia i destini; con brutale eleganza si abbatte il racconto crudo del comunismo.
Il leggiadro fluttuare delle parole nel romanzo è reso possibile, tuttavia, dal dosaggio di un altro elemento importantissimo: il silenzio. Nell’opera, che attribuisce alla musica un valore supremo di catarsi, il ruolo delle pause, infatti, è cruciale. Da un punto di vista formale, la pausa (proprio come con le note) serve a scandire il ritmo della narrazione, a donarle quel suo caratteristico andamento “fluido”. Da un punto di vista narrativo, invece, è un atto di ribellione. Infatti, mentre nella realtà affabulatoria del regime le parole soffocano gli individui, si affollano loro intorno con fare accusatorio, fanno buon viso a cattivo gioco, feriscono, dilaniano, distruggono e negano, il silenzio è il luogo sacro degli atti privati, profondamente intimi, veramente propri. Vissuto intimamente è l’unica via di scampo, un atto volontario, è esercizio della propria libertà; la parola è costrizione e mistificazione.
Così, ancora una volta, la Thien rovescia i significati. Quella reticenza, che noi spesso associamo al nulla, diventa l’unico teatro possibile del tutto. Non a caso, gli avvenimenti centrali in Non dite che non abbiamo niente si svolgono in Piazza Tienanmen, il punto zero della Cina, come la protagonista stessa racconta: la piazza rappresenta lo zero perché lo zero è nulla, ma è, allo stesso tempo, l’origine di ogni cosa. Se è vero, infatti, che il nulla e il silenzio sono rispettivamente l’assenza del tutto e l’assenza del suono, è anche vero che, senza di essi, il tutto e il suono sono indefinibili.
Leggere Non dite che non abbiamo niente è come affondare i piedi nella sabbia sulla riva di una spiaggia esotica e aspettare che la marea li lambisca, per poi allontanarsi seducente in lingue di bianca spuma, trascinandoci a sé. È una sinfonia intrisa di passione che ti riecheggia dentro a lungo e che non puoi fare a meno di voler riascoltare.