Mammo: creatura mitologica metà uomo metà madre. Recenti studi rivelano la sua identità nell’appellativo ben più noto di papà, sebbene gran parte della società continui ancora a negarne l’esistenza scientifica. Può essere riconoscibile, tuttavia, attraverso determinati atteggiamenti che denotano una sensibilità all’apparenza impensabile. In quei casi, per lo più genera stupore e un certo disorientamento che cerca di essere subito fugato con frasi tattiche di auto-convincimento quali è uno che aiuta. Non è pericoloso al contatto.
Una piccola parentesi ironica che ci ricorda la festa dei nostri cari papà, ponendo l’accento su quella che è una questione ancora oggi spinosa: l’uomo come mammo. Ne abbiamo visti e continuiamo a vederne tanti di titoli come Fedez, “mammo” perfetto: pappa e coccole per la piccola Vittoria oppure Francesco Totti è “in versione mammo” con i figli Isabel, Christian e Chanel. C’è stata addirittura una omonima sitcom italiana piuttosto popolare trasmessa su Canale 5 nel 2004.
Ebbene, il mammo è, per trovare una definizione il più possibile esaustiva, un uomo serio e affidabile, con uno spiccato senso della famiglia, che, pur senza rinunciare all’immagine sociale di maschio e di lavoratore, dopo la nascita dei figli dedica a essi la quasi totalità del suo tempo extra lavoro, dando presenza, affettività e gesti concreti che di solito sono di competenza femminile. Con la dedizione, la pazienza e la resistenza alla fatica tipici di una brava madre. Cucina quasi sempre lui – e bene! (la sorpresa che possa cucinare anche bene è una perla fantastica) – accudisce i bambini, gioca tantissimo con loro, li consola, li incoraggia. Il mammo li veste, li cambia, spesso sa lavare, stendere e stirare, conosce i loro gusti, i rituali, le esigenze e si fa in quattro per soddisfarli, riuscendoci. Inoltre stabilisce con essi una grande complicità […] E fa tutto questo senza lamentarsi (fonte: Istituto Riza). Scusate, ma sbaglio o questa è semplicemente la descrizione di un padre, o almeno di come dovrebbe essere? Paradossalmente, sì.
Volendo dire le cose come stanno, è chiaro che si intende, con il termine mammo, quel papà che, letteralmente, “scimmiotta la madre”, assolvendo a delle funzioni per tradizione tipiche del ruolo materno. Un concetto che rispecchia chiaramente una società non ancora pronta a comprendere, e per certi versi ad accettare, il cambiamento, ancorata a quella figura di genitore austero che porta il pane a casa e partecipa fino a un certo punto alla crescita della propria prole. È ancora frequente, infatti, ascoltare in giro frasi quali mio marito mi aiuta spesso con i bambini. Qualcosa che potrebbe sembrare una lode ma che implicitamente suggerisce che quelle cose siano in primis compito della madre, della donna. Che mostrare i propri sentimenti, accudire, essere amorevoli, sensibili e comprensivi facciano parte di quelle peculiarità riconducibili all’universo femminile e quindi non da padri. Non da uomini.
E se queste sono cose da mammo, allora che diavolo dovrebbe fare un papà? Limitarsi alla fecondazione? Pensare ai soldi? Qualche pacca sulla spalla esclamando il mio campione/la mia principessa a seconda dello stereotipo di turno? No, non ci stiamo, e non ci stanno neanche tutti quei papà che devono sentirsi etichettati come genitori di serie b, come a trovarsi in un ruolo che non spetta loro. L’uso così assiduo, negli ultimi tempi, della parola mammo ci porta, però, anche a un’importante, incoraggiante riflessione: che la collettività sta mutando. Sia per un’attenzione maggiore alle questioni di genere sia per la preponderanza di famiglie in cui lavorano entrambi i partner, sono sempre più lontane quelle figure di padre-accessorio, nascosto dietro al giornale – oggi diremmo allo smartphone – in poltrona.
Molti papà rivendicano il proprio ruolo di genitori, vogliono sentirsi parte attiva del percorso di vita dei propri figli, vogliono confrontarsi, parlare apertamente di paternità. E hanno tutto il diritto di non sentirsi snaturati, fuori posto, meno virili. Quando ciò non avviene, le ragioni vanno ricercate in una visione stereotipata ancora parecchio radicata, oltre a un adagiarsi per evidente comodità. Non aiutano neppure quelle madri le quali, specialmente nei primi anni di vita del pargolo, escludono il padre quasi a considerarlo un elemento di disturbo, portandolo spesso a farsi da parte per timore di non essere all’altezza. Togliendogli non soltanto la sua rilevanza come figura genitoriale, ma sollevandolo anche dalle sue responsabilità. Perché, lo dicono tutti, i figli sono della mamma. Un circolo vizioso che pone anche i bambini stessi di fronte a una prospettiva limitata e stereotipata di famiglia, che comprometterà il loro modo di porsi in futuro con le altre donne e gli altri uomini, quando invece il miglior insegnamento dovrebbe essere il lavoro di squadra, l’interscambiabilità dei loro ruoli e la loro egual dignità.
Uno dei problemi ancora attuali nell’universo neonatale/infantile è che tutto è costantemente, assolutamente indirizzato alle madri. Siti internet, spot, articoli. I padri non esistono. Ed ecco che in giro gli uomini fanno i mammi, perché agli occhi della gente il cambiamento c’è ma sembra ancora qualcosa di insolito, di innaturale. Eppure non è strano. Preoccuparsi dell’accudimento, dell’educazione e della crescita dei propri figli è alla base del ruolo genitoriale, uomini o donne che siano.
A oggi, specialmente in Italia, c’è ancora tanta strada da fare, sebbene le voci comincino a farsi sentire e in più ambiti. Tra queste, la campagna che ha promosso l’hashtag #IoCambio, per rivendicare il diritto di avere i fasciatoi anche nei bagni maschili. E poi, lo sappiamo, una delle più grandi e discusse battaglie di sempre: il congedo parentale. In Italia, la Legge di Bilancio 2022 stabilisce, sulla base di quanto già introdotto l’anno precedente, un’astensione lavorativa del padre per un arco temporale di dieci giorni entro il quinto mese dalla nascita del figlio. Briciole, se solo si pensa che in Spagna, ad esempio, sia le mamme che i papà hanno diritto allo stesso congedo di sedici settimane, oppure in Norvegia il periodo è di quarantasei settimane totalmente retribuite, di cui dodici per la madre, dodici per il padre e il resto da dividere.
Statistiche che mettono il nostro Paese davanti a un serio problema, che acutizza non solo la mancanza di diritti nei confronti dei padri ma anche la grande disparità tra uomo e donna da un punto di vista lavorativo. Perché se si continuerà a vedere le donne sempre prima come madri che come lavoratrici, solo perché in possesso di un utero, esse resteranno relegate in una posizione di inferiorità rispetto agli uomini. Nei gruppi WhatsApp di classe ci saranno solo le mamme, così come agli incontri scuola-famiglia o ad accudire il bambino quando si ammalerà. I papà, invece, saranno sempre quelli che aiutano. Saranno i mammi.
Allora, magari, invece di concentrarsi sull’invenzione di termini inutili e sciocchi, sarebbe il caso di rivedere qualche diritto fondamentale che dovrebbe essere ormai scontato, al fine di supportare e accompagnare tutti i papà e tutte le mamme in quella che è senza dubbio una delle esperienze più incredibili e faticose della vita.