I Premi Oscar 2021 hanno segnato un’epoca per più di un motivo. Primo fra tutti, l’emergenza sanitaria nella quale si sono svolti, in ritardo rispetto agli anni precedenti e con modalità organizzative eccezionali. Per non parlare delle modifiche riguardo categorie (da 24 a 23) e criteri di ammissibilità a causa della grande distribuzione di film in streaming piuttosto che in sala. Alle recenti edizioni Oscar, però, non possiamo non riconoscere un’attenzione ogni volta maggiore a pellicole sempre più indipendenti e al pari con i tempi e gli argomenti del momento. Temi come razzismo, sessismo, malattia mentale, immigrazione, disabilità dimostrano come anche il cinema abbracci ormai le discussioni della società contemporanea e si faccia portavoce di inclusività come mai era avvenuto.
Altro primato che verrà ricordato è la vittoria per miglior film di Nomadland e per miglior regia a Chloé Zhao, la seconda donna – e la prima di origini cinesi – a trionfare in questa categoria nella storia degli Oscar. Il film aveva ricevuto ben sei candidature, tra cui migliore sceneggiatura originale, migliore fotografia, miglior montaggio e miglior attrice protagonista, quest’ultima vinta da Frances McDormand, la quale è anche produttrice assieme alla Zhao. Nulla che ci stupisce troppo poiché il trionfo era stato chiaramente annunciato già con le vittorie ai BAFTA, alla Mostra del Cinema di Venezia e ai Golden Globe, mettendo d’accordo fin da subito critica e pubblico.
Ma perché Nomadland fa così tanto parlare di sé? Si tratta anzitutto di una pellicola dall’incredibile e a volte quasi straniante taglio documentaristico, adattamento cinematografico del libro Nomadland – Un racconto d’inchiesta (2017) della giornalista Jessica Bruder. Quest’ultima ha affrontato un viaggio on the road negli USA, raccogliendo interviste e testimonianze dei cosiddetti nuovi nomadi, persone che, per scelta o necessità, conducono una vita itinerante a bordo dei loro mezzi su ruote, privi di legami a beni o affetti e mantenendosi con lavori stagionali.
Nel film, il punto di vista che la camera segue per l’intera durata è quello di Fern, sessantenne che ha perso lavoro e marito durante la Grande Recessione, crisi economica che colpì prima l’America e poi il resto del mondo tra il 2006 e il 2013. Decide quindi di lasciare la sua città in Nevada e attraversare gli Stati Uniti occidentali a bordo del suo furgone. Farà i conti con la solitudine e le varie difficoltà ma conoscerà anche persone che, come lei, si sono ritrovate a condurre, volenti o nolenti, questo stile di vita così fuori dagli schemi.
Fern è una donna combattiva ma allo stesso tempo devastata, di cui seguiamo un intero anno di vita. Attraverso i suoi occhi, anche lo spettatore incontrerà personaggi tra i più svariati e peculiari, alcuni dei quali davvero nomadi nella realtà, che si apriranno raccontando le loro incredibili storie. La performance di Frances McDormand la riconferma l’immensa interprete che è, dopo Tre manifesti a Ebbing, Missouri per il cui ruolo vinse la sua seconda statuetta come miglior attrice. Alla consegna di quest’anno, la McDormand ha reagito ululando, proprio come una scena del film, spettinata e anticonformista.
Nomadland porta sullo schermo la voce degli invisibili, degli emarginati, dei reietti secondo lo standard del sistema capitalistico contemporaneo in cui l’individuo è, più o meno consapevolmente, incatenato. Persone che, spesso, non hanno avuto grande scelta, vinte dalla vita e da una società fallace che non sa ricambiare il contributo dato al sistema, che non sa prendersi cura di chi, per un motivo o per un altro, non è più produttivo o efficiente come un tempo. Non è più ingranaggio. Ed ecco che diventa rifiuto, spremuto come un limone, masticato avidamente e poi sputato. Inevitabile la denuncia alle difficoltà di tener conto dei bisogni del cittadino, ai problemi statunitensi riguardanti assicurazioni e assistenza sanitaria. Ma anche un interessante parallelismo sulle difficoltà economiche a seguito della pandemia, che ha visto finire lentamente nel baratro migliaia di imprese, dimenticate.
Guardare Nomadland è anche un po’ come compiere un piccolo viaggio filosofico all’interno di noi stessi e della natura umana. Una riflessione antropologica su cosa vuol dire davvero stare al mondo perché, dopotutto, c’è anche chi sceglie liberamente di rigettare gli stilemi della società odierna e abbracciare un universo autentico, a cui non frega assolutamente nulla di cosa possiedi, da dove vieni, cosa fai. Eppure può esserci, per molti, una così tanta bellezza…
È una libertà che ha sempre un prezzo e il film non edulcora nulla, attraverso una regia schietta e selvaggia, così come la natura che fa da protagonista per l’intera durata della pellicola. Inquadrature di paesaggi mozzafiato, suggestivi e immensi ci ricordano che alla fine tutto si riconduce a un assioma: comunque vadano le cose la natura resta lì, impassibile e sovrana. Questo è il motivo per cui il film è stato spesso paragonato a Into the wild, di Sean Penn (2008), con la differenza che in Nomadland è l’emarginazione sociale il tema cardine.
Tra dialoghi profondi e introspettivi e inquadrature come dipinte su tela, forse avrebbe meritato anche la candidatura a miglior colonna sonora per le splendide musiche di Ludovico Einaudi che accompagnano la narrazione.
Un’immensa soddisfazione per Chloé Zhao e la sua carriera, purtroppo però non condivisa con il suo paese. Pare infatti che la Cina non sia rimasta troppo contenta di alcune affermazioni contrastanti della regista riguardo il regime e abbia non solo bandito il film dalle sale cinesi ma anche censurato ogni riferimento in merito alle sue vittorie agli Oscar.
Attualmente, Nomadland è disponibile su Disney+ nella sezione Star, dal 30 aprile. Ma possiamo dirlo senza remore, è il grande schermo quello da ricercare. E a tutti gli scettici che ancora tirano in ballo il politically correct, il sesso o l’etnia della regista vogliamo solo rispondere no, Nomadland non ha vinto per nessuno di questi motivi. Ha vinto perché è un film stupendo.