Nel 1986, una famiglia afroamericana di estrazione medio-alto borghese si trova in vacanza nella località balneare di Santa Cruz. Di sera, approfittando di una distrazione del padre, la bambina si allontana ed esplora il lunapark sulla spiaggia, in particolare la sala degli specchi denominata The shaman’s vision quest ovvero la Visione-ricerca dello sciamano. Sotto, in piccolo, c’è un invito, Find yourself, cioè Trova te stesso. Decisamente una dichiarazione di intenti per l’intero film.
La bambina avrà un’esperienza traumatica volutamente non esplicitata allo spettatore che, probabilmente, la segnerà. Si passa, quindi, a oggi e scopriamo che quella stessa bambina, Adelaide – interpretata in età adulta da Lupita Nyongh’o, Premio Oscar nel 2014 per 12 anni schiavo –, adesso ha un marito e due figli, un maschio e una femmina. Insieme tornano proprio a Santa Cruz, nella casa delle vacanze di lei, a trascorrere le ferie. Ovviamente, il ritorno sul luogo del trauma lo farà riaffiorare ma non sarà solo quello a riemergere. Durante la notte, infatti, una famiglia vestita di tute rosse, composta da una replica in tutto e per tutto identica ai quattro componenti del nucleo familiare, verrà a tormentarli violentemente. Ogni doppio sembra essere la controparte diabolica di ognuno dei protagonisti con la differenza che si esprime unicamente con suoni gutturali e sembra essere una versione più ferina e selvaggia del suo simile più civile. La qualità diabolica dei doppi è data anche dai sorrisi con cui guardano/ci guardano e che non lasciano presagire nulla di buono, facendoci realmente rabbrividire nel momento in cui ce li sentiamo addosso.
Non potremo dire molto di più per evitare anticipazioni che rovinerebbero questo complesso e sofisticato horror costruito su molti livelli di significato, che tuttavia riesce a non perdere di vista la tensione, tipica del genere, tenendo incollato allo schermo lo spettatore fino alla fine. Jordan Peele ha imparato bene la lezione e, dopo il pluripremiato Scappa – Get out – Oscar 2017 per la sceneggiatura originale – in cui affrontava il tema razziale con le armi del genere e dell’ironia macabra, in questo Noi il suo mirino si allarga a questioni psicologiche e sociali sia intime che universali, senza mai delegare sul versante dell’intrattenimento, ma anzi dimostrando amore per il genere e maestria nel saperlo gestire.
Non a caso, Peele condisce il film di alcuni omaggi non espliciti, ma ben occultati, a capisaldi della suspence. Per esempio, nella scena in cui Adelaide, ormai adulta, conversa al mare con un’amica/vicina di ombrellone, in realtà preoccupata per il figlio che non riesce a vedere. Non ascolta più le parole dell’interlocutrice mentre il suo sguardo scruta la spiaggia in cerca del bambino. Per chi lo coglie è un chiaro richiamo alla scena de Lo squalo nella quale lo sceriffo Brody mira l’oceano dalla riva per cogliere l’eventuale presenza dell’animale, mentre è infastidito dalle chiacchiere di un vicino. Se poi aggiungiamo che il bambino indossa anche una maglietta del film di Spielberg allora il cerchio è completo.
E come lo Spielberg de Lo squalo e di Duel, anche Peele sa giocare perfettamente con le paure dello spettatore, legate sia a timori atavici e archetipici, sia a tematiche sociali attuali. È infatti su questi due livelli che Noi gioca abilmente. Se da un lato i Doppelgänger (doppio in tedesco) della famiglia costituiscono un rimosso della nostra società, ovvero un richiamo agli ultimi, ai dimenticati che sulla scala sociale si trovano al di sotto di un qualsiasi livello di sussistenza, e che rivendicano un loro posto al sole, sui quali proiettiamo psicologicamente tutte quelle caratteristiche negative che non sappiamo riconoscere in noi stessi, dall’altro essi rappresentano anche il rimosso inconscio di ognuno di noi.
I Doppelgänger del film di Peele, quindi, sono una delle più efficaci rappresentazioni dell’Ombra, ovvero un archetipo antichissimo con il quale la nostra coscienza dovrebbe fare i conti nell’arco della sua esistenza. Per chiarezza, riportiamo la definizione di Ombra da un glossario di termini junghiani: La parte della personalità con cui uno non si identifica o che vuole rinnegare; è di solito legata ad aspetti negativi, ma può anche includerne di positivi che, per convinzioni familiari o sociali, sono stati rimossi o non sono accessibili all’individuo. È un archetipo i cui sentimenti forti, ossessivi, possessivi, autonomi, sono in grado di spaventare e sovrastare il ben ordinato Io, e spesso prende la forma di una proiezione sugli altri. È uno degli aspetti dell’inconscio che s’incontra all’inizio di un’analisi junghiana. Più chiaro e ficcante di così si muore.
Rischieranno di morire anche i protagonisti di Noi perché confrontarsi con l’Ombra vuol dire confrontarsi con loro stessi e con quella parte che è sprofondata nell’inconscio che non vogliono riconoscere perché troppo spiacevole. Sarebbe necessario, infatti, un’integrazione dell’Ombra nella propria personalità per raggiungere una completezza psichica che salvi loro – quindi noi – da nevrosi e da irruzioni psicotiche dell’inconscio. Proprio come Ombre dai recessi dell’inconscio collettivo, irrompono i doppi del film. Se si esce sconfitti dal confronto con noi stessi e con la propria Ombra si esce sconfitti anche dalla vita e, nel caso della pellicola, in maniera mortale. Il tema richiama anche quello del Doppelgänger nel cinema espressionista tedesco degli anni Venti che prefigurava in qualche modo l’avvento del nazismo come Ombra nell’inconscio collettivo tedesco: processo abilmente tratteggiato dallo stesso Jung nel saggio Wotan del 1936. Così le Ombre del film di Peele preannunciano disastri altrettanto catastrofici se non si prenderanno provvedimenti sociali nei confronti degli ultimi, sia all’interno delle nazioni sia a livello internazionale. Per tacere poi degli echi dostoevskiani che il tema del doppio inevitabilmente richiama.
Tutto questo è portato avanti tramite un gioco di suspense che, come si diceva, non viene mai meno e che si regge non sui soliti jump-scare – il momento in cui si salta dalla sedia – tipici dei film di paura, bensì su un senso di minaccia costante per l’incolumità dei protagonisti. Anziché usare lo spavento facile, Peele riesce a mantenere vivo il fuoco dell’angoscia facendoci quasi sempre capire da dove arriverà il pericolo e proprio per questo creando un’attesa quasi insostenibile per ciò che succederà in ogni scena. Non manca una certa dose di ironia che caratterizzava anche Scappa – Get out e che qui emerge nei brevi momenti di pausa nei quali i protagonisti riflettono quasi meta-narrativamente su ciò che sta succedendo. Né manca un certo didascalismo nel momento in cui uno dei doppi afferma, fin troppo esplicitamente, Noi siamo americani, a sottolineare uno dei sotto-testi del film. Ma lo si perdona facilmente vista l’abilità della pellicola a portarci dove vuole.
La situazione della famiglia tenuta in ostaggio richiama certamente classici moderni come il Funny Games di Haneke – nella duplice versione tedesca e americana, anche questo un film doppio –, sebbene in Noi si evolva verso altre direzioni che non possiamo descrivere per evitare i consueti spoiler, soprattutto riguardo un inaspettato twist (colpo di scena) finale, degno del miglior Shyamalan. Possiamo solo dire che una spiegazione, relativa, di ciò che succede c’è ma è una spiegazione che pone ulteriori interrogativi e che potrebbe preludere all’inizio di un’interessante saga – di sapore romeriano – se il film andrà bene al botteghino e soprattutto se il regista sarà interessato a realizzarla. Ciò che rimane è un’ottima alchimia di horror e thriller, pregna di livelli di lettura intelligentemente stratificati e interessanti che conferma Jordan Peele, alla seconda prova sia in sceneggiatura che in regia, come uno degli autori più interessanti del momento. Non mi sembra poco.