Risulta inimmaginabile, per chiunque ne senta parlare, l’idea che qualcuno possa desiderare di togliersi la vita. Ancor di più se si tratta di un’adolescente, una persona nel fiore dei suoi anni, che ha ancora tutta la vita da vivere, che forse è ancora troppo giovane per sapere ciò che vuole e tutti quegli altri luoghi comuni che le generazioni più in là con l’età amano dedicare ai giovani. E fa scalpore la notizia di una ragazzina che è riuscita nel suo intento, con l’approvazione, seppur implicita, di chi le stava intorno.
Non si è parlato d’altro, negli ultimi giorni, che della morte della diciassettenne olandese Noa Pothoven. Per le prime ore dall’annuncio, si è addirittura parlato di eutanasia, che in realtà si è rivelata una falsa notizia, poiché la richiesta della giovane era stata negata. Eppure, soprattutto in Italia, la vicenda ha fatto scalpore, dando fin troppo peso alla questione del suicidio assistito, estremamente dibattuto negli ultimi tempi. La visibilità posta sulla faccenda ha, infatti, scatenato l’opinione pubblica, concentrandone l’attenzione su una questione politica tramite la diffusione di fake news. Una scelta mediatica discutibile, che ha poco rispetto per la tragicità di una vicenda che di politico ha ben poco.
Chi la definisce una sconfitta e chi un atto di umanità, la questione sulla legalità dell’eutanasia resta una delle principali controversie legislative degli ultimi anni, smosse soprattutto dalla vicenda di dj Fabo, l’uomo rimasto tetraplegico dopo un incidente che ha scelto di morire in una clinica in Svizzera. Non sorprende, quindi, che in Italia se ne sia parlato molto più che nel resto d’Europa. In un Paese tanto cattolico da non poter accettare il suicidio come atto legittimo, e non abbastanza religioso da temere l’ignoto dopo la morte più che di una vita di sofferenza, la notizia è esplosa.
Molto controversa anche la questione relativa al disagio di cui soffriva Noa: depressione, anoressia e disturbo da stress post traumatico. È difficile comprendere che qualcuno possa voler morire per un malessere fisico che causa infermità e la quasi totale impossibilità di vivere la quotidianità. Ma diventa totalmente impossibile accettare che sia un disturbo mentale a provocare una decisione del genere. Probabilmente, la natura di tale inammissibilità sta nello scarso peso che ancora si dà ai disagi psicologici e alle malattie mentali perché regna tuttora l’idea secondo cui un malessere è reale se è visibile. Come se il cervello non avesse il privilegio di occupare un posto accanto agli altri organi.
Ma al di là delle convinzioni personali, religiose e politiche, che rendono la questione eutanasia tanto dibattuta in Italia, nonostante sia legale – seppur con le dovute restrizioni – in altri Paesi europei, al di là delle scelte e delle opinioni individuali, c’è un fattore troppo grande per essere ignorato, e a cui nessuno sta dando peso: il perché.
Noa aveva diciassette anni, soffriva di gravissimi disturbi psicologici e non aveva ancora portato a termine il percorso di terapia. La depressione di cui era affetta era stata causata da tre aggressioni, tre violenze sessuali avvenute in giovanissima età. La prima a 11 anni, durante una festa della scuola, la seconda l’anno successivo e la terza a 14 anni, violentata da due uomini in un vicolo della sua città. Tre violenze a sfondo sessuale, in tre momenti diversi della sua vita, in luoghi diversi e occasioni diverse. Tutte quando era ancora una bambina, non lasciando appello a chi possa osare dire che se l’era cercata.
Non sono i suoi precedenti tentativi di farla finita il problema, non è il fatto che il suicidio sia la seconda causa di morte dei giovani in Europa e non è il dilagare di disagi psicologici. Il problema risiede nelle cause che ci sono dietro e nel fatto che, a loro volta, quelle cause dipendono da un mondo brutale, un mondo fatto di violenze sessuali, di uomini che credono di avere diritti sugli altri uomini, di uomini che si appropriano i diritti dei corpi delle donne. Quante possibilità c’erano che una ragazzina venisse stuprata tre volte nel giro di pochi anni? Quanto dovrebbe essere bassa la probabilità e quanto, invece, la realtà fa impallidire le statistiche? La violenza sessuale resta un crimine tristemente comune e ancora più angosciante è la scarsa attenzione che vi si rivolge. È un tipo di atto che non comporta solo una sofferenza momentanea, che prima o poi passa. Si imprime nei ricordi e nel corpo di chi la subisce e segna la vita in modo irreparabile. È un trauma a tutti gli effetti, di quelli che non lasciano cicatrici, ma ferite sempre aperte. Come la depressione che Noa avrebbe portato con sé per il resto della sua vita, qualunque fosse stata la sua durata.
Se un’afflizione è così grande da non riuscire a capirla, quindi, non andrebbe giudicata, ma compatita, perché non poterla neanche immaginare significa che si tratta di una sofferenza così grande che la fantasia umana non riesce ad arrivarci. E andrebbe aiutata, con tutti i mezzi, in tutti i modi. L’umanità è tanto avanti da andare sulla Luna, ma tanto indietro da non riuscire ad assistere una qualsiasi Noa che soffre. È tanto intelligente da costruire strumenti per guardare all’interno di minuscole cellule e comporre sonetti in versi graziosi, ma è tanto ottusa da non porre fine a un’idea del mondo tanto sbagliata quanto dolorosa. Un mondo così arretrato da ospitare ancora crimini selvaggi. Un mondo in cui una ragazzina viene stuprata per strada e non chiede aiuto ai suoi genitori per paura e vergogna. Un mondo in cui essere violentati è una colpa per le vittime e mai per i carnefici.