Oggi, le identità digitali hanno assorbito molte connotazioni della nostra sfera privata, declinandole in una maniera diversa che regola le frequenze dei bisogni alla Babele di internet. Qui, questi ultimi vengono tradotti in avatar più o meno felici, più o meno corrispondenti ai nostri io di carne, sangue e ossa. Da quando abbiamo cominciato a “tradurci” virtualmente, la categoria del cyborg ipotizzata da Donna Haraway nella sua opera femminista ci rappresenta sempre di più.
Un cyborg è per definizione un ibrido tra macchina e organismo, una creatura che appartiene ai due mondi della realtà e della finzione contemporaneamente. Potremmo, dunque, considerarci non esseri frammentari composti da un’identità digitale e una che abita il mondo fisico, ma un tutt’uno organico che abita all’intersezione di due realtà. Siccome nella Pangea digitale siamo liberi dalla dimensione del corpo (pur preservandone i bisogni), questo significa per estensione una libertà dal binarismo di genere (dalle categorie di uomo e donna) e dalle dinamiche di potere tra sessi. Eppure, come scriveva la stessa Haraway, la tecnologia non è neutra: dentro quello che facciamo, ci siamo noi stessi. E nel mondo connesso che abitiamo è importante cosa viene fatto e cosa viene disfatto. Lo spazio digitale riproduce, inoltre, i comportamenti abusanti, le molestie, le disparità di genere, le violenze che vediamo perpetrare nel mondo fisico. Ciò diventa particolarmente evidente quando internet partecipa della sfera della sessualità come strumento di violenza attraverso la diffusione non consensuale di materiale fotografico e video intimi.
Nei giorni scorsi, le bacheche dei social network e le pagine degli organi di stampa si sono infuocate intorno alla vicenda di una maestra licenziata dall’asilo presso cui lavorava a Torino perché il suo ex aveva condiviso con gli amici un loro video privato senza il suo consenso. Il coro di voci indignate per l’ennesimo caso di revenge porn (così viene definito il crimine) che vede colpevolizzare una persona già lesa nella propria intimità violata si è mescolato ai titoli dei giornali, i quali hanno fatto spessissimo cenno al video hard della maestra, accompagnando le parole a immagini eloquenti di donne seminude con un cellulare in mano. Molti siti d’informazione hanno poi scelto di cavalcare l’onda dello scandalo intervistando gli amici dell’uomo che ha diffuso il video, riempiendo pagine e pagine web di qualunque dettaglio pruriginoso riuscissero a rosicchiare. Tuttavia, alla base di questa attenzione famelica per il corpo femminile esposto in rete contro la sua volontà riteniamo che ci sia, affiancata alla misoginia sistemica della nostra società, una questione di lingua.
Definire un contenuto multimediale divenuto strumento d’abuso come video hard minimizza la gravità del reato e pone l’accento sulla componente eccitante del guardare, non visti, due persone che fanno sesso. La locuzione video hard della maestra, poi, focalizza l’attenzione del lettore, a questo punto stimolato al click da una primordiale curiosità proprio sulla donna, e ne qualifica l’esistenza in quanto protagonista di quel video, proprietaria di quel corpo giovane spiato e goduto in passività. A livello subliminale, passa in secondo piano ogni lotta per ottenere giustizia, ogni condanna al reato viene svilita.
Sotto i riflettori è sempre la sessualità femminile che eccita solo se coperta di vergogna, massacrata dalla potestà virile che decide della sua penetrazione. Un simile ragionamento si può applicare anche al termine utilizzato attualmente per definire questo genere di reati: revenge porn. Ci uniamo alla voce di molti attivisti nel constatare che questa particolare scelta di parole sia scorretta. Anzitutto, il concetto di vendetta presuppone un torto da pareggiare. Nella maggior parte dei casi, la diffusione priva di consenso di materiale video e foto a sfondo sessuale non ha la vendetta come movente: è, invece, un esercizio di potere per dimostrare all’altra di avere il comando e di essere in pieno possesso di lei e della sua immagine agli occhi del mondo. Si tratta dell’ebbrezza di poter rovinare una persona con la sola pressione di un paio di tasti. Vendetta, inoltre, racchiude implicitamente una nozione di colpa della persona che la subisce. La vittima è così messa nella posizione di doversi giustificare poiché si dà surrettiziamente spazio al pensiero che debba aver fatto qualcosa per meritarsi un simile trattamento.
L’utilizzo del termine porno apre, poi, un ventaglio d’implicazioni. Porno non può voler semplicemente indicare il contenuto sessuale di immagini e video diffusi non consensualmente perché, un po’ come hard (che, infatti, viene utilizzato come sinonimo), ha una precisa connotazione che lo colloca nella sfera semantica dell’industria dell’intrattenimento erotico. Essendo una parola estremamente elastica e versatile, viene affiancata spesso da sostantivi che diventano suoi attributi, quasi aggettivi. Accade, così, che le categorie di pornografia possibile vengano indicate da un nome + porn. In questo senso, revenge porn viene a essere un’altra potenziale categoria dei siti web per adulti. Anche qui, l’accento non è sul reato commesso né sulle ripercussioni innumerevoli che le vittime di tale reato subiscono giorno dopo giorno, per molti anni.
Chiamare porno un video diffuso contro la volontà di uno dei protagonisti equivale a classificarlo come contenuto consumabile da terzi a scopo masturbatorio. A riprova del fatto che le questioni di lingua influenzino grandemente la nostra percezione dei fenomeni, e di quanto siano importanti definizioni che facciano chiarezza sulla sessualità e sui rapporti online, un dato avvilente e francamente disgustoso: la divisione italiana di PornHub, la più grande piattaforma di materiale porno al mondo, ha registrato tra i trend degli ultimi giorni la ricerca del video hard della maestra di Torino. Un gruppo di attivisti ha proposto di rimpiazzare revenge porn con la sigla NCII (Non-Consensual Dissemination of Intimate Images, diffusione non consensuale di immagini intime). Nell’unirci alla loro proposta, ribadiamo l’importanza di una riflessione sulle parole: una riflessione che ci aiuti a “disfare” nello spazio digitale e reale le brutture e gli abusi sistemici che subiamo in quanto donne.
Mi piace la lucidità di questo pezzo, come rappresentante della parte maschile del nostro pianeta provo spesso imbarazzo per come la bigottaggine misogina pervada il mondo del Mainstream informativo.
Questo sarà uno dei cambiamenti culturali più difficili da attuare, ma è in generale l’assenza di una forma femminile di potere che disorienta: è culturalmente più facile assegnare il potere al maschio perché ogni cultura occidentale parte da questo assioma.
Gentile Enrico,
grazie per questo commento. Il cambiamento è sempre difficile, ma non dobbiamo demordere e continuare a discutere, lottare, schierarci per la parità!
Cordiali saluti!