La scorsa settimana, e dunque in piena crisi politica, il Senato ha aperto le porte ai propri inquilini per dibattere su un tema che alcune forze parlamentari hanno pensato di dover classificare come controverso, tanto da richiedere il voto segreto. All’ordine del giorno vi era, infatti, la “terribile” domanda di declinare al femminile i sostantivi della lingua italiana che vanno a indicare le cariche istituzionali: ministro, senatore, presidente.
La problematica discussione – avanzata dall’audace Senatrice del MoVimento 5 Stelle, Alessandra Maiorino – ha costretto il primo partito nei sondaggi, Fratelli d’Italia, a chiedere di occultare le volontà degli aventi diritto al voto per far sì che gli stessi non fossero esposti personalmente.
Risultato: 152 voti favorevoli, 60 contrari e 16 astenuti, il Senato non approva. Nulla di nuovo, dunque, semmai un’anticipazione di ciò che sarà una stagione governativa che vede in Giorgia Meloni il capo di una coalizione che deciderà le sorti del Paese, un quinquennio in cui le questioni legate ai diritti civili e sociali rischiano di subire un drammatico stop nel loro processo di avanzamento, o persino di regredire.
Non è con l’utilizzo del femminile nella terminologia tecnica che si garantisce la parità sessuale, fanno sapere dai banchi del partito di «Io sono Giorgia». Semmai – insistono – è a esperienze come la loro, e dunque a un gruppo parlamentare con una donna nelle posizioni di vertice, che la politica deve guardare per prendere esempio.
Peccato, però, che Giorgia Meloni non sia proprio l’esempio più edificante su cui basare questa già fallace teoria. La leader che non condanna il fascismo è innanzitutto colei che fa continuamente appello alla famiglia tradizionale di matrice cattolica – sottraendo le donne dalla possibilità di decidere cosa fare del proprio nome, del proprio ruolo genitoriale, della propria carriera –, una donna che lavora per mantenere esattamente quel tipo di establishment maschile e maschilista che il movimento femminista mira a mettere in discussione.
Non basta una donna a fare gli interessi di tutte, soprattutto quando – e se – quest’ultima utilizza il potere alla stessa maniera di coloro che dovrebbe combattere. Lo dimostrano le politiche di Giorgia Meloni, lo dimostra la Presidentessa del Senato Casellati, che si ostina a firmare qualsiasi documento con la dicitura Il Presidente…, nonostante la lingua a cui si appella (assieme a tutto il centrodestra), facendo leva sulla purezza, preveda da sempre la declinazione del sostantivo nella sua forma femminile con la desinenza -essa.
Il Senatore Lucio Malan (FdI) sostiene – e chi scrive condivide – che «l’evoluzione del linguaggio non si fa per legge o per regolamento, ma attraverso l’evoluzione del modo di pensare e parlare dei popoli». Peccato, però, che l’intervento del proprio partito abbia prodotto esattamente quanto egli afferma, ossia ha interrotto per effetto di legge un’evoluzione che deriva proprio da una necessità popolare sempre più insistente.
I mutamenti a cui va incontro una lingua sono sempre ispirati dai movimenti, e i movimenti sono ispirati dalle minoranze, da categorie discriminate che evidenziano un problema, una stortura della società. È un processo storico. Dunque, chi sia il Senatore Malan, o tutte le sessanta persone che hanno impedito a questa evoluzione di compiersi, è l’unica domanda da porsi, a maggior ragione quando la questione all’ordine del giorno sta a cuore di tanti da troppo tempo, determinati a lottare per pari dignità e condizioni.
Difensore da sempre di purezza e identità nazionale, il partito di Giorgia Meloni si è scoperto, in questo caso, finanche purista della lingua italiana. Eppure, anche ragionando alla propria maniera, si presenterebbe un problema se, ad esempio, si riunisse un gruppo di sole donne regolarmente elette in Senato. In tal caso, perché – per legge – toccherebbe parlare di senatori e usare un plurale che includa entrambi i sessi quando la stessa lingua purissima prevede il sostantivo femminile e, dunque, senatrici? Non è questa la vera storpiatura?
Il maschile sovraesteso si utilizza, infatti, per descrivere spesso gruppi misti di uomini e donne, e ancor più si adopera parlando o scrivendo di ruoli di potere, motivo principale per cui suona male all’orecchio quando sentiamo pronunciare le parole sindaca, assessora, ministra. Eppure, anche in questo caso, è la lingua stessa – nelle sue regole storiche che Malan e FdI non intendono modificare – che propone la soluzione, come per il più alto grado di potere, dove re al femminile si declina con il termine regina. Perché un processo culturale rinnovato nelle idee e nei principi non può portare a un’evoluzione anche nel caso di termini meno nobili quali ministro o sindaco?
Il partito più misogino del Parlamento si è ripetutamente adoperato per affossare discussioni di vitale importanza per i diritti civili come quelle sullo Ius Soli o il Ddl Zan, spesso appellandosi alla mancanza di tempo o alla necessità di ottimizzarne per questioni più importanti per il Paese. Perché dibattere, allora… anzi, perché decidere al buio – come i ladri, o i sorci – se usare o meno il femminile di una parola? Con la crisi finanziaria che affama le famiglie, la guerra in Ucraina, le elezioni anticipate forzate creando un danno al Paese, davvero non vi sono cose più importanti che rompere le palle, le ovaie (o qualsiasi cosa definisca al meglio il fastidio) alle donne e togliere loro anche il diritto di utilizzare termini da cui si sentono maggiormente rappresentate?