«È legittimo aprire una crisi di governo da parte del M5S, ma se si decide di non votare la fiducia allora si firma la lettera di dimissioni di ministri e sottosegretari. È ridicolo che il Ministro D’Incà abbia posto a nome del governo la questione di fiducia e che poi la capogruppo dello stesso partito dica che non la voti. Cosa fa il Ministro Patuanelli, la vota o no la fiducia? C’è un limite di dignità, decenza e onore che avete sorpassato».
Non fa una grinza questo passaggio dell’intervento di Matteo Renzi al Senato, tranne l’ultima frase, quella relativa al limite di dignità, decenza e onore che lo stesso più volte ha superato di gran lunga durante il suo governo, uno dei più longevi della recente storia repubblicana, fino all’azione demolitrice del Conte bis. Una mossa che non gli ha fruttato di certo maggiori consensi elettorali, ma l’ennesima sconfitta personale e della sua formazione politica, quell’Italia Viva in verità sempre più in coma che i sondaggi danno a poco più del 2% in concorrenza al neo partito del fuggiasco Ministro degli Esteri, le cui proiezioni al momento non risultano affatto confortanti.
Tutti in corsa verso le prossime Politiche usate al momento come spauracchio per un Draghi bis che lo stesso Quirinale pone strategicamente come unica alternativa a un’uscita definitiva del Presidente del Consiglio del governo dei migliori: o Draghi o elezioni, e saranno i parlamentari a dover decidere se andare a casa. A tal proposito, vale la pena ricordare quanto ha scritto Il Sole 24 Ore sul diritto alla pensione, al compimento dei 60 anni, che per i parlamentari al primo mandato scatta dopo quattro anni, sei mesi e un giorno che andranno a scadere il prossimo 24 settembre. Quindi, anche se oggi si interrompesse la legislatura, il vitalizio verrebbe assicurato perché di qui all’insediamento del nuovo Parlamento occorrerebbero almeno ottanta giorni, arrivando ai primissimi di ottobre.
Tutto questo, ovviamente, è un ragionamento in atto non solo tra i pentastellati indecisi tra dimissioni dei propri ministri e sottosegretari e se seguire o meno le direttive di Giuseppe Conte al comando di truppe scomposte preoccupate del proprio presente e futuro, ma anche in quella Italia Viva e in tutte le altre forze politiche al di sotto e al di sopra del 10%, così come in quelle in gestazione che certamente non tarderanno a farsi notare.
Nihil sub sole novum, nulla di nuovo sotto il sole. Come sempre, cambiano i giocatori ma i giochi restano gli stessi: vecchie e più recenti formazioni impegnate a tenersi caro il proprio seggio o, quantomeno, in ultima analisi, a trarne i benefici personali tra liquidazioni, pensioni e chi più ne ha più ne metta.
C’è, però, qualcosa che non quadra. Genera più di qualche sospetto l’insistenza del Presidente banchiere nel volere tutti dentro a tutti i costi, pur essendoci i numeri per continuare la legislatura senza il M5S che, va detto – e su questo giornale non abbiamo mai mancato di affermarlo –, pur avendo fatto sempre il contrario di quanto dichiarato, ha inteso questa volta non uniformarsi, tra l’altro, all’approvazione della realizzazione del termovalorizzatore di Roma ritenuto a giusta ragione un punto irrinunciabile non facente parte del programma di governo.
Il banchiere, almeno finora, sembra fermo sul o tutti o vado via, una strategia per disgregare ulteriormente il quadro politico – creando malcontento tra i parlamentari – o per riaffermare il super potere sullo stesso Parlamento? Andare via sì ma a testa alta, marcando la differenza con quella classe politica di cui certamente non si sente per niente parte e preservando il suo profilo anche sul piano internazionale. Il proprio prestigio anzitutto, anche perché la carriera di un banchiere non termina mai, c’è sempre un gradino da salire e mai da scendere.
Nihil sub sole novum. E, intanto, l’Italia resta immobile tra pandemia, guerra, costi energetici insostenibili per aziende e famiglie, precarietà del lavoro e disoccupazione giovanile, costretta ancora una volta ad assistere all’alternarsi di tanti governi dal 1992, come ha scritto su questo giornale Flavia Fedele nel suo articolo Trent’anni e diciassette Premier, ma i falliti siamo noi:
’A disgrazia, la sfortuna. Nella Smorfia napoletana, diciassette non è un buon numero. E, in fondo, non lo è nemmeno nella mia vita. Diciassette, infatti, è il numero dei Presidenti del Consiglio che si sono alternati a Palazzo Chigi dall’estate del 1992, l’anno della mia nascita. Sette soltanto negli ultimi dieci anni. Più o meno da quando ho iniziato a votare. Destra, sinistra, centro, tecnici, esperti, traghettatori, migliori. Li ho visti tutti e tutti hanno dato un indirizzo preciso alla mia vita, alla vita di quei coetanei che, come me, si guardano attorno attoniti, stanchi, con le borse sotto gli occhi per le tante notti insonni a cercare una soluzione.
Amara e triste verità di una generazione senza futuro, condannata a pagare un prezzo troppo alto per l’immobilismo di una politica ostinata a non cambiare, pilotata da una classe dirigente incapace o, peggio, capace soltanto di favorire se stessa e il proprio orto dove non restano neanche le briciole per garantire un’esistenza dignitosa.
A ogni estate il timore dell’autunno è sempre in agguato e anche questa volta, tra una guerra in atto – nella quale siamo dentro fino al collo e i cui risvolti sono imprevedibili pagandone, però, sin da ora le conseguenze –, una pandemia sanitaria interminabile, un esecutivo che ci è stato assicurato il migliore possibile e quello futuro, qualsiasi esso sia, non cambierà nulla di nulla.
E non basterà sbandierare lo spauracchio del governo di destra venturo perché nulla sarà peggio di quanto verificatosi nei trent’anni citati dalla collega. Nulla potrà spaventarci, potremo soltanto sperare in un risveglio dal torpore se qualche novità – che sia davvero una novità totalmente fuori dal sistema – si affaccerà per indicare una strada diversa, una politica al servizio della comunità con persone credibili, programmi da rispettare e una chiusura netta ad avventurieri e incapaci.
Abbiamo già ampiamente dato.