Niente di vero, uscito nel febbraio di quest’anno per Einaudi editore, è annoverato tra i dodici canditati al Premio Strega 2022. L’autrice, Veronica Raimo, gioca con la verità fin dal titolo, intesa come lucida memoria da rievocare a pezzi nel romanzo, che, in realtà, si presenta ambiguamente ancora prima del titolo, e cioè nell’idea della forma. Se non è fiction, dunque, può dirsi auto-fiction? Il primo esclude categoricamente l’altro? Che il libro non sia solo comico, però, è sicuro; non è solo dissacrante. La scrittura qui è un gioco a posteriori e si muove sulle tracce disordinate di una vita che di umoristico ha ben poco se non la si guarda con gli occhi svegli.
È la memoria di uno shock apparentemente non così innegabile, quella che la narratrice di questa storia a frammenti non cronologici ripercorre con un sottile sarcasmo che si configura con il proprio marchio identitario. Il trauma dell’essere nata in una famiglia ordinaria nella sua ansia, nelle sue fisime, nelle sue straordinarietà. In copertina troviamo una fotografia di Marta Bevacqua che ritrae una bambina in una smorfia ed è così che il lettore può immaginare Vero, la piccola protagonista che fingeva un delirio creativo con i suoi chiudendosi in cameretta e comparendo, dopo ore, con due capolavori che fuoriuscivano da una verità plasmata che conosceva solo lei e per la quale, pur non ammettendolo apertamente, ci prendeva gusto.
I due dipinti sono ancora appesi in corridoio a casa di mia madre. Quando vado a trovarla e ci passo davanti, ho la tentazione di dirle la verità, ma temo che non mi crederebbe. I miei rari tentativi di essere sincera con lei non sono mai presi sul serio, bensì guardati con un misto di sospetto e compassione.
È la voce di un’adulta che torna bambina, o di una bambina già abbastanza adulta da costruire la sua personalità proprio nella progressiva consapevolezza che la vita sia un flusso indeterminato di eventi; e quasi ci si rende conto di una tale insensata scoperta solo se si ammette che non c’è niente di vero nel ricordo, che la memoria è sabotatrice sopraffina e ci si può anche divertire con essa e con tutti quelli che coinvolge. Tra una madre che prospetta scenari inverosimili e un padre che ha la mania dei muri divisori, Vero cresce indisturbata all’ombra di un talentuoso fratello spesso spacciato per morto o in fin di vita. Entrambi diventano grandi in un guscio di monotonia e preoccupazioni ed entrambi diventano scrittori.
Io e mio fratello siamo diventati tutti e due scrittori. Non so cosa risponda lui quando gli chiedono come mai, io dico che è grazie a tutta la noia che ci hanno trasmesso i nostri genitori. […] Abbiamo passato l’infanzia chiusi dentro a romperci le palle. Era un’attività talmente intensa che presto divenne una posa esistenziale. Sapevamo annoiarci come nessun altro.
Protagonisti de L’epistolario (sfogliabile nella quinta uscita di Review, supplemento mensile de Il Foglio diretto da Annalena Benini), Veronica Raimo e Christian Raimo si scambiano brevi lettere nelle quali, mentre il fratello la rimprovera del furto di metà degli aneddoti familiari scelti per la costruzione del racconto, si dichiara abbastanza contento che, alla fine, l’abbia scritto lei il romanzo comico. Ammettendo che senza l’altro non si sarebbero salvati, dall’angoscia della madre così come dalla fatica di entrambi i genitori a lasciare liberi i propri figli, i fratelli Raimo raccontano di essersi voluti bene tramite i libri, e di continuare in un certo senso a farlo anche oggi.
Rito poi trasposto all’interno del romanzo Niente di vero, sullo scambio dei libri, in particolare, Veronica Raimo scrive ne L’epistolario: Sì, scambiarsi i libri è stato un rito, uno di quei riti di iniziazione da confraternite americane, quindi in un certo senso significava credere alla trascendenza di quello scambio, di quel gesto. Non cercavo la trascendenza nei libri in sé, nella lettura, ma avevo bisogno di questa mediazione. Potrei dire che le cose non sono veramente cambiate da quando ero una ragazzina. Per me la trascendenza non sta nella letteratura, nella letteratura in sé, quella con la L maiuscola, chiamala come ti pare, ma in chi mi accompagna nella scoperta di qualcosa, nel rapporto, nelle persone. Non mi piace amare le cose da sola, anzi mi fa stare malissimo.
Come racconta nel romanzo, infatti, a un certo punto arriva la scoperta dei libri, non come metodo per evadere dal quotidiano, ma piuttosto una rasserenante coalescenza di noia; la giovane carne di Vero, leggendo, si fa essa stessa noia. Così come è stato per la scrittura dunque, per la quale – come leggiamo nella primissima pagina del volume – uno scrittore è disposto a fare una brutta fine nel tentativo disperato di uccidere madri, padri e fratelli, per poi ritrovarseli inesorabilmente vivi.
Vivi nel ricordo, vivi in ogni provocazione. Niente di Vero è una narrazione tragicomica e intima, inedita per la narrativa italiana a cui siamo abituati; la narrazione di una fioritura personale così originale nel suo ambiente convenzionale. La Raimo ha volutamente scardinato con mordace maestria alcuni schemi antiquati, ammuffiti, passandoli in rassegna singolarmente per poi adunarli sotto un’unica voce rauca, diretta, individuale.
E in effetti è quello che ho sempre fatto nella mia vita. Ogni volta che mi sono sentita chiusa in una cameretta, dentro un gioco con delle regole, non ho provato a fuggire ma a inquinare il raziocinio della stanza e delle regole. A immaginare cose finte, a dirle, a provocarle, fino a crederci. Fino a pensare che un dado può sempre dare cinque, benché non serva assolutamente a nulla.