Nella Germania del 1917, lo studente Paul Bäumer è intriso di ideali patriottici e smania di mostrare il proprio valore, motivo per il quale mente sulla sua età pur di arruolarsi nell’esercito imperiale tedesco. Ma la realtà della trincea è ben diversa dalle aspettative. Paul e i suoi giovani compagni si scontreranno presto con un’amara disillusione. L’entusiasmo dell’inizio cederà il posto allo strazio, faccia a faccia con gli orrori di una guerra che non è mai come quella che raccontano i grandi e che, giorno dopo giorno, ti trascina giù, in un baratro senza fine.
Disponibile in streaming su Netflix e candidato a ben nove Premi Oscar, tra cui quello per miglior film, Niente di nuovo sul fronte occidentale (Im Westen nichts Neues) è una pellicola del 2022 diretta e co-sceneggiata da Edward Berger, cineasta noto in particolar modo per produzioni televisive. Il titolo resta lo stesso del celeberrimo romanzo del 1928 da cui è ispirato, opera del veterano di guerra Erich Maria Remarque che narra i traumi psicologici dei soldati tedeschi una volta rientrati a casa dal fronte al termine della Prima guerra mondiale e da cui erano già stati tratti due film, uno del 1930 e uno del 1979.
Oltre ad aver ottenuto grande plauso ai Golden Globe (nomination a miglior film in lingua straniera), quest’ultima versione è stata scelta per rappresentare la Germania ai prossimi Oscar, nella categoria miglior film internazionale, concorrendo insieme a svariati giganti anche per il già detto miglior film, migliore sceneggiatura non originale, migliore fotografia a James Friend, migliore scenografia, miglior trucco e acconciatura, migliori effetti speciali, miglior sonoro e migliore colonna sonora a Volker Bertelmann.
Non c’è che dire. La guerra è stata fin dagli albori ma in particolare dal secondo conflitto mondiale in poi di ispirazione per una moltitudine di pellicole e registi, desiderosi di sconvolgere e documentare ciò che avveniva al fronte e che troppo spesso veniva travisato. Buio, polvere, incubi, nessuna etica. Non aitanti soldati, ma ragazzini dai caschi troppo grandi e i fucili che pesano. Nessuno più che pensa che la più grande aspirazione di un uomo sia morire da eroe. Ci era riuscito recentemente e divinamente il buon Sam Mendes con 1917, facendo correre lo spettatore dietro al giovanissimo soldato protagonista dentro claustrofobiche trincee, in piani sequenza maestosi e carichi di empatia (non ha vinto miglior regia solo perché quell’anno c’era Parasite, altrimenti il premio sarebbe stato suo).
Il regista tedesco si concentra sulle ultime fasi della Grande Guerra, prima dell’armistizio della Germania, e preferisce eludere i virtuosismi tecnici per soffermarsi su una storia cattiva e basta, cruda, fatta di continui assalti e di uomini che muoiono. Seguiti da altri uomini che combattono e poi muoiono anche loro, in un vortice senza fine. Se da un lato affoghiamo tra sangue, lacrime e fango, dall’altro assistiamo all’indolenza pomposa dei potenti, gli adulti, gli organizzatori. Quelli che non ci pensano due volte a sacrificare un’intera generazione per la patria, schiacciandola sotto il peso della loro meschinità. Una dicotomia natura-uomo, di cui quest’ultimo sembra non fare parte, esplicitata perfettamente tramite un’abile metafora nelle prime scene del film, con una famiglia di volpi in una foresta assorta e un tappeto di cadaveri ammucchiati tra la cenere. Due silenzi dal peso terribilmente contrastante.
Il giovane Paul ha il volto di un ancora sconosciuto ma promettente Felix Kammerer, mentre Daniel Brühl (già visto in pellicole come Good Bye, Lenin!, Bastardi senza gloria, Captain America: Civil War o Lettere da Berlino) interpreta Matthias Erzberger, politico e diplomatico tedesco, leader del partito socialdemocratico il quale firmò l’armistizio di Compiègne nel 1918. Tra gli altri attori del cast anche due ottimi Albrecht Schuch (il compagno Kat) e Thibault de Montalembert (il generale Ferdinand Foch).
La regia pulita di Berger alterna primissimi piani e campi lunghi e la fotografia di James Friend è un agghiacciante spettacolo per gli occhi, tra i toni caldi del fuoco e delle lanterne e quelli freddi e spenti del fumo, della nebbia, della cenere. Della morte. Il tutto accompagnato da un commento sonoro, merito di Volker Bertelmann, che devasta tanto quanto la storia, disperato e inquietante grazie anche all’utilizzo dell’harmonium (l’organo a pompa).
Niente di nuovo sul fronte occidentale è l’ennesima quanto necessaria trasposizione cinematografica di un romanzo sempre attuale che va oltre la mera ricostruzione storica degli eventi, soffermandosi sulle storie, sui sentimenti, tramite un ottimo utilizzo dei dialoghi, e mette in scena una riflessione sulla perseverante follia della guerra. Attraverso il punto di vista dei vinti, il film si dota di una profonda empatia verso il lato umano della storia, quello degli occhi sgranati sui volti neri dei soldati, quello dei deliri di onnipotenza dei canali diplomatici. Soldati ragazzini caduti nella menzogna degli ideali di nazionalismo e della valorosa chiamata alle armi, finiti a scontrarsi con il mondo reale, tra mutilazioni e urla di terrore, e la cui identità dipende unicamente da una gelida piastrina incisa. E mentre le armate avanzano e i ragazzi muoiono, lo sguardo si sposta sull’élite dei potenti, comodi nelle loro pulite camere ben arredate, nelle loro uniformi di plastica. Uomini piccolissimi che giocano a biglie con pezzi di carne da macello, che provano a darsi un senso.
Una guerra che, come dice a un certo punto il compagno Kat mentre ricorda quanto volesse mostrarsi coraggioso agli occhi di sua madre, nessuno di loro potrà mai più abbandonare perché ormai è parte di loro. Di quelli che vanno e di quelli che restano.
Niente di nuovo su nessun fronte, ieri come oggi.