Nidaa Khoury, palestinese, cristiana. Vive a Fassouta, nell’alta Galilea, e insegna letterature in un’università ebraica, la Ben Gurion, nel deserto del Negev, dimora di Amos Oz. Khoury è certamente, per il proprio vissuto, una forte testimone delle tensioni della sua terra e, anzi, ne è un’icona. Queste tensioni si esprimono necessariamente in poesia perché il suo verso, sia arabo che ebraico, nasce dall’istintivo neuromotorio battere del piede sul suolo nei momenti di dolore o di esultanza, battito che diventa rituale coreutico, danza che è, a sua volta, origine della poesia modulata sul ritmo cardiaco.
Mondo arabo, ebraico, cristiano sono religioni del libro ed è nota la cura che essi hanno per la scrittura. Muezzin, rabbino, prete cantano attraverso Khoury i salmi del pane e del vino: un suo volume, strutturato come un rotulo di torah con testi che ricordano le sure, ha come simbolo sul recto la spiga e, sul verso, il calice di vino. La poetessa, dunque, si pone come sintesi delle tre culture, indica (dire è in-dicare) una direzione di senso attraverso il suo umanissimo amore. Khoury è, per questo aspetto, “epica”, ripercorre fasi storiche e fondamentali dell’espressione umana, agiscono in lei le problematiche trattate da Havelok (La musa impara a leggere; la Musa impara a scrivere): elevate cultura e sapienza insieme con l’utilizzo, nativo, di forme popolari immediatamente riconoscibili dai suoi lettori.
La critica classica araba distingue poesia innata (Matbu’) e quella artificiale e forzata (Masnu’). Questa distinzione è già una forzatura. Qualsiasi poeta ha un potere di percezione che gli consente di creare nessi impensabili tra i dati dell’esperienza, dunque creare sistemi di pensiero. Qualsiasi poeta è “naturale” ma affina e affila con la pietra dell’arrotino il vissuto che vuole comunicare e per ottenere questo risultato non può che ricorrere a una tecnica, a una tradizione, consapevole del fatto che l’emozione è una tecnica dell’arte (Aristotele). In questo senso, la Khoury è emozione pura, corporalità, grazia (charis, carità paolina, compassione).
Non meraviglierà, pertanto, che il suo stile sia un mix di oralità e scrittura, con frequenti innesti di canti a distesa lanciati ex abrupto durante i reading. Ascoltarla significa vedere e udire un cantore in azione, un griot. La sua voce ha talvolta i melismi del fischio dei delfini, lallazioni ancestrali sedimentate nell’occipite e indagate da Demetrio Stratos. La poetessa, altresì, si dedica da anni al teatro (sul campo) denunciando, come Nadine Satoudek e molte altre, i soprusi, fisici o morali, subiti dalle donne nel Medio Oriente. Questa questione non riguarda la comunità ebraica, da sempre evoluta in merito, ed è indubbio che la liberazione del mondo femminile arabo darà un importantissimo contributo alla democrazia di quegli Stati. Ricordiamo qui un celebre testo di Darwish in cui l’autore, fermato a un check-point da un soldato ebreo che lo deve identificare, gli dice: «Scrivi, sono un arabo». Nient’altro: solo un arabo, nessuno o una nazione.
L’amore di Nidaa Khoury-Antigone, la sua ribellione allo status quo in nome della giustizia più che della legge, non può essere fermato da alcun check-point perché l’amore c’è, lo sentiamo come flusso ma, come il vento o la corrente del fiume, non si può arrestare. Ecco alcuni titoli delle sue raccolte: Anelli di sale, La cintura del vento, Il fiume scalzo, La treccia di fulmini, Ti annuncio il mio silenzio, I cavalli, L’acqua. Questi titoli, con piccoli interventi, sono di per sé un testo di poesia, ci introducono nell’ambiente fisico, naturale e mitico de La terra più amata. Ma cos’è il mito se non lo stesso sogno sognato da molte generazioni? Nella voce di Khoury si ascoltano gli echi delle stirpi e delle tribù. Cosa suggeriscono quei titoli se non immagini attraverso le quali gli istinti, la natura, la loro semantica inconscia, trovano la propria auto-rappresentazione?
Certamente Khoury è religiosa, al punto che vari testi hanno l’andamento di preghiere ma sappiamo (lo diciamo in anteprima) che la poetessa sta lavorando a un romanzo dal titolo La fine del monoteismo, il che implica il passaggio dalla terraferma dell’essere al pluriverso mare degli enti. Edita in Italia da IL LABORATORIO/le edizioni (2011, collana I poeti di Vico Freddo), le sue sillogi non hanno avuto vita facile. In Giordania, ad esempio, è stata censurata. Non poteva essere altrimenti: Il libro dei peccati (Nehesi House, Caraibi, 2011) dietro il ventaglio di liriche bellissime dichiara che il primo e vero peccato della donna mediorientale è la sottomissione. Si intercettano in lei gli elementi fondativi e profetici de Il pensiero meridiano di Franco Cassano e la biopolitica di Giorgio Agamben. Per avere idea della sua poetica occorre visualizzare l’Alhambra, immaginare di passeggiare tra madreperle, corallo, ebano, ambre/tutta merce sottile, lavorata dall’uomo (Kavafis,Itaca), avvertire nelle narici gli odori di spezie, seguire, assetati, carovane sulla luna cavalcando cammelli con gli zoccoli fasciati. Cosa ci resta dopo averla letta? Il confine tra Oriente e Occidente, una cicatrice più che una cerniera.