Mezzo di informazione principale a partire dalla sua prima diffusione, la televisione permette di conoscere e di sapere, di essere sempre aggiornati e di comprendere il mondo. Il suo potere indiscusso nella stimolazione di idee e pareri risiede nell’indispensabile ruolo che ha acquisito nella vita di tutti come strumento di intrattenimento, di conoscenza e, talvolta, anche di compagnia. I messaggi trasmessi attraverso la sua voce arrivano sempre a destinazione, contribuendo alla formazione dell’opinione pubblica.
Da pochi giorni è giunta la notizia di alcune rivoluzioni della programmazione RAI e dell’organizzazione dei suoi canali. Un comunicato stampa ha dichiarato che saranno presto rimossi i canali RAI Premium e RAI Movie, una decisione che ha lasciato perplessi i cinefili e gli appassionati del mondo del cinema, che hanno invitato l’emittente a ripensarci. Ma la vera novità riguarda una particolare scelta: RAI 4 diventerà presto un canale dedicato esclusivamente al pubblico maschile, mentre verrà creato RAI 6, pensato invece per un pubblico femminile.
Essendo un’erogatrice di prodotti come altri, la televisione propone la propria merce profilando adeguatamente i consumatori a cui si rivolge. Ogni fascia oraria è dedicata a un particolare tipo di pubblico, in cui i programmi sono diversificati per età, interessi, classe sociale e, inevitabilmente, anche genere. Non si parla, però, di divisioni nette ed esclusive, quanto più propriamente di tendenze, valutate soprattutto secondo gli indici di gradimento e di target profilati in modo molto più specifico del banale uomo-donna.
La scelta di diversificare in maniera tanto drastica il palinsesto dà certamente da pensare. Il primo dubbio che sorge riguarda come, esattamente, si possa caratterizzare la programmazione in base al genere dei fruitori del servizio. Non è ancora chiaro quali siano le intenzioni e le idee degli ideatori di questa rivoluzione mediale ma, forse, non serve aspettare di conoscerle per immaginare come andrà a finire. Facile pensare che, secondo quegli stereotipi che si cerca costantemente di combattere, si avranno cronache sportive e film d’azione per gli uomini e pellicole romantiche e programmi di cucina per le donne. Perché, in fin dei conti, dedicare un canale a un unico genere significa cercare di inquadrarlo e irrimediabilmente escludere generi diversi.
Con questa mossa, qualunque emittente televisiva dimostrerebbe una posizione politica e sociale molto chiara, incentrata sulla bipolarità sessuale e di genere, confermando l’esistenza di differenze, per lo meno di interesse, tra uomo e donna ed escludendo l’esistenza di individui che non si identificano nella classica dualità. Tuttavia, l’aspetto più grave dell’iniziativa sta sicuramente nel fatto che a fare questa divisione tanto netta non sia una qualsiasi azienda privata, bensì la RAI. La televisione di Stato, dunque, sta ufficialmente riconoscendo le disparità di genere, differenziando i prodotti telematici in base al gender.
Un canale televisivo non è solo una semplice combinazione di tasti sul telecomando o una certa frequenza di onde del digitale terrestre. È in realtà un canale di trasmissione di informazione e di intrattenimento che comunica messaggi e inculca idee non solo attraverso i temi di cui tratta, ma anche nei modi in cui lo fa. Potrebbe, forse, risultare meno grave se questa scelta fosse dipesa da un’esigenza di mercato che punta a introiti pubblicitari maggiori e più specifici, con la speranza di accaparrarsi la promozione di quei prodotti rivolti in modo esclusivo a un singolo genere.
Ci si chiede, però, se anche i messaggi saranno diversificati. Se ci si limiterà ad aderire a un’idea di diversificazione maschi-femmine o se si andrà oltre, proponendo riflessioni differenti in base al destinatario atteso. Spaventa l’idea di un ritorno al passato, con le donne in casa e gli uomini all’azione. Per non parlare, poi, delle questioni relative a chi, invece, non si identifica in alcun genere statico, chi si considera gender fluid o chi non si sente rappresentato dall’esclusività dei generi classici. Semplicemente questi canali non saranno rivolti a loro o saranno diretti a tutto il pubblico nazionale, perseguendo l’idea di doversi necessariamente identificare in un nastro azzurro o rosa?
La decisione, per ora, è stata soltanto annunciata, ma non ancora messa in pratica e ci si chiede se diverrà mai formale, dato le critiche che sta ricevendo. Eppure, con un’idea di questo tipo, un soggetto di grande influenza come la RAI non fa che confermare le restrizioni sociali che imponiamo a noi stessi e che la società costruisce da millenni, affermando una netta differenza tra maschio e femmina. Contribuisce, inoltre, a costruire quegli alti muri tra i due poli che si cerca costantemente – e forse invano – di abbattere. Sorge, dunque, spontanea e lecita la domanda: è davvero utile continuare a differenziare? Non c’è forse più armonia in una famiglia che guarda lo stesso programma sul divano, rispetto a un gruppo di individui collocati in stanze diverse di un’unica casa perché costretti?
Dall’alba dei tempi, la società umana si è organizzata basandosi sul concetto di divisione dei compiti che ha irrimediabilmente portato alla creazione di ruoli. Ma dividere, in fin dei conti, ha sempre creato disparità ed esclusione. Forse, per una volta, sarebbe meglio tentare di unire.