Capita di rado di uscire da una sala cinematografica, confusi tra il divertimento e la tristezza, dopo aver assistito alla visione di un film che sfida le regole del “politicamente corretto” e di conseguenza sbeffeggia gli stilemi narrativi e di critica sociale a cui noi spettatori siamo abituati. È quello che può accadere, invece, dopo aver assistito alla proiezione di Tre manifesti a Ebbing, Missouri di Martin McDonagh, una commedia nera, anzi nerissima, premiata per la migliore sceneggiatura al Festival di Venezia del 2017.
La trama ci racconta delle “gesta” di Mildred Haynes, una donna che vive il dramma della perdita della giovane figlia, stuprata e bruciata da sconosciuti qualche mese prima della narrazione filmica, che un giorno decide di affittare tre giganteschi cartelloni pubblicitari posti lungo una strada alla periferia della cittadina di Ebbing. La protesta è espressa in tre domande e diretta contro l’inazione o, addirittura, la colpevole inefficienza della polizia locale e soprattutto del suo capo William Willoughby, che non è riuscito a risolvere il caso e a trovare i colpevoli dell’orrendo crimine.
La spettacolare azione di Mildred sconvolge l’intera città e il suo falso “quieto vivere”, nonché il piccolo dipartimento di polizia, un vero e proprio microcosmo di cinismo e intolleranza, dove si fa notare soprattutto il vice capo Dixon, un omone dalla personalità infantile e violenta. Sarà lo stesso Willoughby a cercare, con scarsi risultati, di mediare tra la determinata durezza della madre della vittima e l’insofferenza del suo vice e degli altri abitanti della città.
Quando il capo della polizia, da tempo malato di cancro, metterà fine ai suoi giorni con un colpo di pistola alla testa, la situazione precipiterà verso una resa dei conti senza esclusione di colpi e con inaspettate efferatezze, ma nessuno avrà giustizia né riuscirà a far prevalere le proprie ragioni. Esiste la legge formale a Ebbing, ma non una reale giustizia.
Il film di McDonagh, scrittore e regista inglese, è caratterizzato da un pessimismo antropologico – di kubrickiana memoria – senza speranze e possibilità di redenzione. Al tempo stesso, il racconto cinematografico non rinuncia al grottesco e alla descrizione perfino affettuosa, ma non compiaciuta, di un’umanità che vive in un orizzonte esistenziale dominato da una cultura provinciale, in cui le relazioni sono caratterizzate dalla reciproca sopraffazione e dall’ostilità, sia all’interno dei propri nuclei familiari sia nella più ampia arena sociale, dove è difficile distinguere tra legalità e comportamenti criminali.
Qualche settimana fa, alla serata di premiazione per la 75esima edizione dei Golden Globe Awards – i riconoscimenti cinematografici assegnati dalla stampa estera – Tre manifesti a Ebbing, Missouri ha vinto quattro premi: miglior film drammatico, migliore attrice protagonista in un film drammatico per l’interpretazione straordinaria di Frances McDormand, miglior attore non protagonista per Sam Rockwell, nella parte del vice capo della polizia, e migliore sceneggiatura per la scrittura di McDonagh.
Dove è possibile trovare legalità e aiuto per un cittadino nato e cresciuto in un ambiente familiare e in un sistema caratterizzati dall’incomprensione e dall’odio sociale e razziale, dalla violenza fisica e psicologica? E cosa può accadere se perfino una madre vittima come Mildred ricorre ad azioni violente, quando viene negata la sua richiesta di una giustizia che, ben presto, somiglierà alla vendetta contro coloro che dovrebbero aiutarla e invece cercano di farla tacere?
Non si possono fare domande a Ebbing, ma forse anche nel resto del sistema mondo in cui viviamo, sembra dirci l’amaro finale del film. Altrimenti si può rischiare di incontrare la verità sugli esseri umani o di scatenare l’inferno nella vita quotidiana per poi accorgersi che sono, per molti versi e in maniera indeterminata, la stessa cosa.