Il virus non fa differenze di nazionalità, classi sociali e ricchezza, dinanzi a lui siamo tutti uguali: quante volte, nelle ultime settimane, ci sarà capitato di sentire questa frase che ci pone tutti nella medesima posizione di fronte alla pandemia che sta sconvolgendo il mondo. Eppure, se è vero che il COVID-19 può infettare chiunque, non è altrettanto vero che tutti sono esposti allo stesso rischio, né che le restrizioni – anche economiche – cui siamo sottoposti stiano avendo per l’intera popolazione uguale effetto, colpendo fortemente i soggetti più deboli.
La pandemia, infatti, sta accentuando le differenze tra classi: precisi studi medici evidenziano come le persone appartenenti a strati sociali disagiati siano più a rischio delle persone benestanti, innanzitutto in ragione del lavoro svolto. Un operaio, a differenza di chi ricopre ruoli dirigenziali o comunque non manuali, non può accedere allo smart working e non ha la possibilità di lavorare in ambienti protetti. Oltretutto, spesso si tratta di soggetti che hanno già patologie croniche alle spalle, aggravatesi più velocemente per la maggiore difficoltà ad accedere a cure rapide e il più delle volte private: la presenza di tale quadro clinico, come è noto, rende più difficile la guarigione una volta contratto il virus.
Ovviamente, non si tratta di dati che riguardano la sola Italia: basti pensare che i numeri emersi negli Stati Uniti dimostrano che, a causa del COVID-19, muoiono più afroamericani che bianchi, evidenziando le disuguaglianze che derivano dalla discriminazione nell’accesso al lavoro, alle cure mediche – poiché spesso sprovvisti di assicurazione sanitaria – e alla casa. La pandemia, dunque, sta sottolineando una crisi sociale che era già in corso da tempo e in particolare in Italia dove, fin dalla crisi economica del 2008, sono state effettuate scelte che hanno progressivamente impoverito la popolazione, producendo precarietà, incremento delle disuguaglianze e deperimento delle istituzioni pubbliche. Gli ultimi rimangono ultimi, anzi la fetta di popolazione a rischio povertà ed emarginazione aumenta.
Si tratta di centinaia di migliaia di invisibili che affollano le nostre città ma che non vengono minimamente presi in considerazione. Innanzitutto, parliamo dei 50mila senza fissa dimora che in questa emergenza hanno difficoltà a rispettare le norme minime sul distanziamento sociale o a mantenere condizioni igieniche dignitose. Molti dormitori, inoltre, sono chiusi per mancanza di volontari e per quelli rimasti aperti, come denunciato da Alessandro Radicchi – Presidente della Europe Consulting Onlus – vige il divieto di accogliere nuove persone, per cui chi era fuori resta fuori in balia del virus. Come se non bastasse, chi vive in strada corre anche il rischio di ricevere una multa poiché paradossalmente sta violando il divieto di restare in casa. Pur apparendo un’assurdità è davvero accaduto in molte città italiane. Si è spostato in assenza di comprovate esigenze lavorative, assoluta urgenza o motivi di salute: è quanto si legge nei verbali redatti dai rappresentanti delle forze dell’ordine cui è stata demandata la risoluzione di ipotesi come queste – poiché nessun provvedimento è stato varato a livello governativo –, creando un vulnus giuridico che è prima di tutto un paradosso di carattere logico.
Come ricordato da Antonio Mumolo, Presidente di Avvocato di strada – associazione che da vent’anni si occupa di fornire tutela giuridica gratuita ai senza fissa dimora – basta sanzioni, la povertà non è una colpa. Eppure il processo di criminalizzazione della povertà ha radici lontane nel nostro Paese e ha raggiunto il suo apice dopo il 2008 quando, anziché combattere la disuguaglianza, si è iniziato a perseguire i poveri stessi, affrontando il dramma sociale esclusivamente nella dimensione dell’ordine pubblico, del decoro e della decenza, rappresentando loro un ornamento non gradito nelle nostre pulite e ordinate città.
Non si tratta altro che dell’equazione per cui chi non produce non è utile, quindi può essere abbandonato. E di nuovo gli Stati Uniti ci forniscono un vergognoso esempio della società cui aspiriamo in maniera sempre più pericolosa: è tristemente nota la vicenda dei senzatetto di Las Vegas costretti ad accamparsi in un parcheggio. Tutti abbiamo visto quelle immagini e dovremmo essercene vergognati, perché sono la dimostrazione lampante della brutalità cui è giunto l’essere umano.
Ma tra le file degli ultimi i senza fissa dimora non sono soli. In questo periodo, infatti, sono troppe le persone lasciate senza alcuna tutela: tanto per iniziare, gli operai, i lavoratori precari e a nero. Per molto tempo e in settori per i quali la definizione di essenziale è piuttosto discutibile, gli operai hanno continuato a lavorare come se fossero sacrificabili e continueranno a esserlo anche nella fase 2 poiché – si è detto – non si può fermare tutta la produzione. Non importa se non è possibile garantire le minime condizioni di sicurezza e se nessun controllo rispetto a questo aspetto è compiuto. Oltretutto, i lavoratori a nero, spesso oggetto di vere e proprie forme di schiavismo moderno soprattutto se migranti, rischiano di non rientrare in nessuna delle misure varate che, in ogni caso, risultano insufficienti sia rispetto alla platea cui dovrebbero rivolgersi sia perché non tengono conto del costo reale di una famiglia in Italia. Misure che, tra l’altro, sembrano pensate da chi non riesce neppure a quantificare quanto si spende per una spesa, per i canoni di locazione e le utenze mensilmente. Per i migranti, invece, non è stata predisposta alcuna forma di regolarizzazione, neppure temporanea, per metterli al sicuro e molti di loro, senza una residenza certificata, non potranno accedere all’assistenza con i buoni spesa lasciata alla direzione dei singoli Comuni.
Altro tassello da aggiungere a questo vergognoso puzzle sono i detenuti che continuano a vivere in ambienti insalubri e senza la possibilità di rispettare le norme sul distanziamento sociale, spesso costretti a dividere la propria piccola cella con altre dieci persone. E se qualcuno ha ancora l’ardire di affermare che la distinzione tra le classi sociali è un antico retaggio che oramai non esiste più, probabilmente dovrebbe guardare oltre il proprio naso, là dove ci sono famiglie che al momento non hanno piatti pieni da mettere a tavola per sfamare i propri figli né comodi divani su cui aspettare che la quarantena finisca, cogliendo – così dicono molti – l’aspetto positivo di questa pandemia. Persone i cui figli spesso non possono continuare a seguire il programma didattico online perché sforniti di un computer o di una connessione a internet.
La verità è che ci sono centinaia di migliaia di individui per cui non esiste alcun aspetto positivo e che hanno visto frantumarsi sotto i propri occhi il piccolo mondo che con tanto sacrificio erano riusciti a costruire. Secondo alcuni economisti della Federico II, dopo due mesi di lockdown l’incremento delle famiglie al di sotto della soglia di povertà si aggirerà tra le 100 e le 260mila, e non solo per il blocco economico ma, soprattutto, per l’insufficienza delle misure predisposte, definite da molti una vera e propria elemosina di Stato. Dimostrazione della crisi profonda in corso sono i tentativi di assaltare i supermercati da parte di nuclei familiari che non avevano – e non hanno – mezzi per andare avanti e a cui le istituzioni hanno risposto con dispiegamenti antisommossa, dimostrando la regressione a Stato penale anziché sociale.
E la situazione non riguarda la sola Italia: secondo OXFAM – confederazione internazionale di organizzazioni no profit che si dedicano alla riduzione della povertà globale –, mezzo miliardo di persone nel mondo sarà a rischio povertà se non si metteranno in atto misure economicamente adeguate, vanificando decenni di lotta all’indigenza. A quel punto, la macchina della solidarietà, che così velocemente si è attivata fin dall’inizio della pandemia, non sarà più sufficiente.
Il nostro Paese, però, non ha solo dimostrato di abbandonare i più deboli, ma anche la propria memoria storica, con le migliaia di morti non registrate avvenute nelle RSA, dove gli anziani sono stati lasciati a morire senza alcuna cura. Un’emergenza, quella del virus, che è pure psichiatrica: secondo i dati del SISM, Sistema Informativo Salute Mentale, sono circa 851mila le persone seguite da servizi specialistici, senza contare quelle che non sono riuscite ad accedere a servizi territoriali e i cui disturbi potrebbero essere acuiti dalla reclusione cui siamo costretti, riportandoci a quei periodi in cui nei confronti dei cosiddetti matti si operava il contenimento repressivo.
Insomma, la narrazione dell’unica comunità che si stringe perché contraddistinta dallo stesso nemico non è convincente né veritiera poiché la situazione che stiamo vivendo non fa altro che dimostrarci che ciò che conta è il singolo che vedrà nell’altro un potenziale portatore del virus da cui stare lontano. Gli ultimi continuano a restare indietro mentre le istituzioni sono troppo occupate a salvaguardare esclusivamente interessi economici. Il rischio è che si acuisca quella lotta tra poveri che non ci ha mai abbandonato e che, come affermato da Bauman in una sua lezione magistrale di qualche anno fa, si ritorni alla lotta per la sopravvivenza, in cui gli sconfitti sono emarginati, rifiuti umani superflui che rappresentano per la società esclusivamente un peso.