If I only could make a deal with God/and get him to swap up places…: questo verso della canzone di Kate Bush rimbalza ovunque da quando la quarta stagione di Stranger Things l’ha riportata in auge. Il brano viene riprodotto dai protagonisti come un vero e proprio incantesimo per contrastare Vecna, il sanguinario antagonista di questo nuovo capitolo della saga Netflix.
Gli sceneggiatori della serie, strizzando l’occhio alla sottocultura nerd, hanno sempre attinto a piene mani dalla lore di Dungeons & Dragons e questo caso non fa eccezione. Il villain Vecna trae ispirazione dall’omonimo personaggio del celebre RPG, un umano assurto a divinità non-morta dopo vari esperimenti nel campo della magia nera e l’auto-mutilazione dell’occhio e della mano sinistra (in esoterismo, del resto, la mano sinistra è associata proprio alla magia nera). Vecna è noto con una serie di titoli, tra cui Arch Lich (essere che ha sconfitto la morte divenendo, con l’aiuto dell’arte magica, un non-morto) e Re Non-Morto. Vecna, nella serie e nel gioco, si avvale dei segreti estorti, della conoscenza tabù, per accumulare un potere che si esprime nel superamento dei limiti di finitezza imposti dalla dimensione spaziale e carnale.
Se potessi fare un patto con Dio e convincerlo a scambiarci di posto…, canta Kate Bush. Ed è ironico che siano queste le parole rituali scagliate contro Vecna nella serie, perché la origin story di ogni negromante che si rispetti affonda le radici proprio nella volontà di scambiarsi di posto con Dio, carpirne l’immortalità e la conoscenza a ogni costo. Come Johann Faust, l’alchimista e stregone tedesco che vendette l’anima al diavolo in cambio dei suoi poteri magici, o Victor Frankenstein, i cui esperimenti macabri e protoscientifici puntano a rubare letteralmente la forza vitale del cielo (l’attivazione del “mostro” avviene per mezzo dell’impulso elettrico del fulmine) per disporre di vita e morte in Terra.
L’epigrafe del romanzo di Mary Shelley è dal Paradiso Perduto di Milton e recita così: Did I request thee, Maker, from my clay/To mould me Man, did I solicit thee/From darkness to promote me (Ti ho chiesto io, Creatore, dall’ argilla di modellarmi uomo, ti ho forse incitato a promuovermi dall’oscurità?). L’attenzione è sul tormento dell’essere cosciente, evocato contro la propria volontà dall’indefinito limbo della non-esistenza per condurre un’esistenza infelice in un corpo mostruoso e fallibile. La condizione disperata del mostro, però, a propria volta segnala, nel suo creatore, una caratteristica di crudeltà chirurgica, tanto più sadica quanto più legata ad asettico interesse scientifico. Frankenstein rappresenta un punto di svolta nella rappresentazione narrativa del negromante: la tenebra della mano sinistra magica sbiadisce al confronto con la fulgida fiammella della filosofia naturalista. Il cadavere non è più al centro di un cerchio magico di evocazione dal regno dei morti, ma viene smembrato, riassemblato, azionato dall’elettricità come una macchina.
Il romanzo, scritto in piena rivoluzione industriale, subisce l’influenza di un mondo che si trasforma e si espande in nome della produzione. In quanto erogatore di forza lavoro, la forza vitale dell’uomo si vede tradotta in tempo produttivo, le funzionalità e le parti del corpo sempre più paragonate a meccanismi, ingranaggi, circuiti. La morte viene negoziata, rimandata, pur restando tabù. Avviene, piano, la metamorfosi dall’umano all’androide, al cyborg, al transumano. La letteratura e l’estetica cyberpunk esplorano l’ibridazione con la macchina al punto da farne un tropo del genere. Gli innesti cibernetici, i potenziamenti, le alterazioni della macchina umana diventano possibilità di trascendere l’origine argillosa e caduca, le limitazioni imposte dalla corruttibilità della carne. Nel capolavoro di William Gibson Neuromante, l’IA che dà il titolo al romanzo è in grado di evocare dall’aldilà le memorie dei morti e avviarle come RAM autonome nel cyberspazio. L’autore conia dunque un neologismo che segnala, allo stesso tempo, la tecnologia biomeccanica del suo universo (neuro, perché ci si connette al cyberspazio direttamente dagli impulsi nervosi) e l’oscura resurrezione nella non-morte cui vanno soggette le memorie risvegliate dall’IA (necromancer).
Le visioni di futuro impazzite vanno a braccetto con l’idea di negromanzia. Un ottimo esempio di questo è Scorn, un videogioco per Xbox Serie X di prossima uscita (ottobre 2022). Ispirata alle atmosfere delle illustrazioni di H.R. Giger (che lavorò all’iconico design degli Xenomorfi di Alien), l’ambientazione di gioco è un incubo lucido di metallo e materia organica. L’idea del team di sviluppo Ebb Software era quella di creare un videogioco intorno alla sensazione di smarrimento del venire al mondo (il che ci ricollega all’epigrafe miltoniana di Frankenstein). Cartilagini sanguinolente e uteri ingrossati ricoprono di livide escrescenze le algide architetture cablate in cui avanza a tentoni un protagonista senza nome, il volto nascosto da una membrana gelatinosa. Come nell’arte di Giger, i riferimenti al fallo e alla penetrazione erotica sono disseminati ovunque, acuendo ancora di più la sensazione disturbante generata dal palpitare di un mondo non-morto. L’amplesso biomeccanico, consumato da protuberanze e cavità non-vive, non può, infatti, propriamente dirsi vita.
L’estetica negromantica non si osserva solamente in Scorn. La cultura pop è ultimamente pervasa da negromanti: oltre al Vecna di Stranger Things, va citata la Scarlet Witch dell’ultimo cinecomic Marvel Dottor Strange e il Multiverso della Follia; oltre a Scorn, l’introduzione del negromante come classe giocabile in giochi come Diablo IV. Anche la narrativa fantasy ha rispolverato, di recente, il suo interesse per questa figura con titoli di ampio successo come la saga di Gideon la Nona di Tasmyn Muir (Mondadori) e la saga di Sabriel di Garth Nix (pubblicata di recente da Fazi).
L’ipotesi di chi scrive è che il negromante esprima metaforicamente (meglio di altre figure di fantasia) il tempo in cui viviamo. Il riferimento esplicito all’utilizzo del cadavere come strumento carburante per raggiungere un fine si inserisce, in continuità con l’uomo-macchina, all’odierna crisi del mondo del lavoro, sempre più piagato dalle dinamiche di sfruttamento, all’incalzare di un inesorabile senso della fine. Interpretare la possibilità narrativa dello stregone oscuro vuol dire, allora, affrontare, comprendere, esorcizzare l’incubo dell’accelerazione necrotica in un mondo che crolla.