Di tutti gli orrori di cui la storia umana è stata fautrice, di tutti i conflitti, gli stermini e le ingiustizie, gli eventi della Seconda guerra mondiale sono i più freschi nella nostra memoria, non tanto per la vicinanza temporale – esistono orribili guerre molto più recenti –, quanto per l’inverosimile piega che questa ha preso. Il genocidio degli ebrei e gli orrori dei campi di concentramento sono vivide immagini che difficilmente dimenticheremo. Una catastrofe di cui, speriamo, non si smetta mai di parlare perché dimenticare gli errori del passato significa rischiare di ricompierli. Ma forse, ancora più pericoloso dell’oblio, è credere che non siano mai accaduti.
Esiste, già a partire dai primi anni del dopoguerra, una corrente di pensiero che nega le responsabilità tedesche durante il conflitto o la sola esistenza della drammatica mattanza che ha sconvolto l’Europa. Camuffati sotto il termine scientifico di revisionismo storico, i negazionisti considerano l’Olocausto una menzogna storica, inventata dagli Alleati per giustificare le azioni ai danni della Germania. I sostenitori di questa teoria, infatti, negano che la Germania nazista abbia condotto lo sterminio sistematico degli ebrei e le innumerevoli violenze subite dal popolo ebraico sono spesso annoverate come pratiche belliche, quindi del tutto legittime in periodo di guerra.
Data la diffusione di dottrine del genere, sono numerosi gli Stati con norme antinegazioniste adottate in seguito all’invito dell’Unione Europea di adoperare misure per punire l’apologia, la negazione o la minimizzazione di genocidio, e in alcuni Paesi, come la Germania e la Svizzera, il negazionismo rappresenta un reato punibile con la reclusione. In Italia, purtroppo, la negazione dell’Olocausto rappresenta solo un’aggravante per i crimini di discriminazione razziale e incitamento all’odio. Resta però l’eterno dubbio che contrappone, ai danni che il negazionismo può creare, l’importanza della libertà di parola. Baluardo della democrazia e fondamentale per tutte le altre, la libertà di parola, pensiero, espressione, non può considerarsi illimitata, non nel momento in cui inneggia all’intolleranza e alla violenza. Ma, fino a ora, il conflitto è sembrato irrisolvibile.
Una posizione ben precisa, invece, è stata presa dalla Corta di Strasburgo che, pochi giorni fa, ha rigettato l’appello di Udo Pastors contro la sua precedente condanna. L’ex capo del partito nazionaldemocratico tedesco, nel 2010, aveva pronunciato un discorso davanti al Parlamento che negava il genocidio degli ebrei durante la Seconda guerra mondiale. La condanna era sopraggiunta quando aveva affermato che l’Olocausto fosse un’invenzione creata per ragioni politiche e commerciali a discapito dei tedeschi e che ancora oggi eventi come il Giorno della Memoria rappresentano un’occasione per massacrare l’immagine germanica.
Il discorso dell’esponente di estrema destra, com’è stato poi confermato dalla sentenza, aveva l’intenzione di diffamare il ricordo di una tragedia nel momento della sua commemorazione. Le assurde dichiarazioni furono infatti esternate all’indomani del 27 gennaio, a sottolinearne il malevolo – e deprecabile – proposito. Ma la gravità delle parole di Pastors non è rappresentata dall’assurda macchinosità di un irrealistico complotto, quanto dalla volontà – per ragioni politiche e commerciali, volendo citarlo – di screditare le drammatiche morti e le torture inflitte a un intero popolo. Ad aggravare la drammaticità del suo indegno tentativo, inoltre, l’utilizzo della libertà di parola come giustificazione delle sue affermazioni. In seguito alla condanna a otto mesi di reclusione e 6000 euro di multa, infatti, l’ex leader NPD ha tentato di difendersi nascondendo l’intento delle sue parole dietro il rispetto di uno dei fondamentali diritti umani.
La libertà di espressione non protegge la negazione dell’Olocausto: questa la sentenza con la quale la Corte di Strasburgo ha preso una chiara posizione. Essa ha infatti affermato che l’uomo avesse consapevolmente dichiarato falsità per diffamare gli ebrei e ha definito negazionista il suo discorso perché mostrava disprezzo nei confronti delle vittime tramite la negazione di fatti storici accertati. Inoltre, la Corte ha riconosciuto che Pastors ha consapevolmente tentato di usare il suo diritto alla libertà di espressione per diffondere idee contrarie nel testo e nello spirito alla Convenzione dei diritti umani.
Tramite il rigetto, dunque, sembra essersi compiuto un nuovo passo proprio nella direzione del rispetto dell’uomo. La libertà di espressione, che resta una delle fondamentali libertà democratiche alle quali non si deve mai rinunciare, non dovrebbe essere utilizzata come strumento per azioni di propaganda dell’odio. Strumentalizzare un diritto tanto sudato, per il quale si è combattuto, al fine di diffamare uno dei più folli atti di discriminazione razziale, è dunque un triplice affronto, alle vittime come ai sopravvissuti, ai diritti umani. Si spera, allora, che con questa condanna nessuna forma di discriminazione o ingiustizia sia più perpetrata sotto il nome di libertà.