Nefando, o viaggio nelle viscere di una stanza, è un videogioco del deep web al centro del romanzo omonimo di Mónica Ojeda, edito Polidoro Editore per la collana I selvaggi, in libreria dal 22 febbraio. Un videogioco che per i suoi contenuti vietati viene immediatamente eliminato, senza lasciare alcuna traccia, e che nel testo, l’autrice, servendosi di una scrittura scorrevole, sotto forma di vere e proprie interviste o flussi di pensieri, racconta attraverso gli occhi dei sei protagonisti che hanno tutti in qualche modo contribuito alla sua creazione.
Si tratta di sei ragazzi che condividono un appartamento a Barcellona e che, così come nel videogioco, vivono le proprie vite appartati all’interno delle loro stanze, celanti segreti insondabili di violenza e dolore. Un dolore che diventa, insieme alla letteratura e alla scrittura, lo strumento per decomporre la propria esistenza e ricomporsi, ritrovandosi.
I fratelli Terán, Irene, Emilio e Cecilia, sono la mente dietro Nefando – il cui creatore materiale è invece l’hacker “Il Cuco” – oltre che i protagonisti di alcuni di quegli stessi video che fanno tanto discutere. Ripercorrono un’infanzia fatta di violenza e abusi, un’infanzia che li ha resi ciò che sono e che li fa sembrare così disinteressati alla vita da sbattere in faccia a chiunque la dura realtà che tutti cerchiamo di rifuggire. Ma anche per Il Cuco, Kiki e Iván l’infanzia è il peggior incubo da affrontare. Ce lo raccontano bene le parole scritte da Kiki, che passa il suo tempo a scrivere versi che riguardano la fanciullezza e la pornografia, la sessualità negata, corpi martoriati e desideri, quegli stessi versi che le sono costati il rifiuto costante a cui è stata soggetta nella vita.
Ci sono due modi di affrontare la nostra umanità: scavando il cielo o scavando la terra. Nuvole o vermi. Celeste o nero. Di norma tutti scaviamo il cielo perché solo i pazzi guardano in basso e si mettono a raspare. A quanto pare desideriamo l’immensità, non la nostra ma quella che va oltre noi, il che è sempre ben lontano dalla pelle e dalle ossa; molto distante dalla polvere a cui ritorneremo e con cui concimeremo il prato. Ti dico una cosa… è sempre meglio scavare la terra. Non è la strada facile. Fa male, certo, ma la conoscenza è sempre una scheggia incarnita e impossibile da estirpare. Anche guardando il cielo, scalando le nuvole, allontanandoti sempre di più da te e da quello che sei puoi arrivare alla conoscenza, però non di te stesso ma del tuo ritratto.
Il dolore è il modo attraverso cui i protagonisti acquistano consapevolezza, si conoscono, si nutrono delle sofferenze altrui, fanno della scrittura e della letteratura lo strumento per raccontare ciò che nessuno ha il coraggio di guardare con lucidità, rifiutano i propri corpi, esplorano i dolori e i piaceri e scoprono che non c’è così tanta differenza tra essi. Si rendono conto della difficoltà di spiegare un dolore, di riuscire a dire quello che percepiscono, nominarlo con le parole adatte, costruire una verità convincente, dare un significato al caos.
I sei ragazzi intervengono nel racconto in una maniera che può sembrare apparentemente casuale, ma dietro cui si cela un preciso schema atto a decostruire tutto ciò che del mondo pensiamo di sapere: le idee di belle e brutto, di doloroso, ripugnante, morboso. In fin dei conti, Nefando non è un vero videogioco, chi partecipa non può giocare, ma può solo restare a guardare e, per quanto gli faccia male ciò che vede, continua a osservare ossessivamente una verità che finge di ignorare e che ci svela quanto la libertà e la morte, il disgusto e la gioia, il corpo e la mente siano così ravvicinati da confondersi, quanto non ci sia più nulla a separare realtà e finzione. Anche quella linea sottile che abbiamo tracciato con la nostra razionalità è stata inghiottita dal sordo vortice di violenza che i protagonisti hanno sopportato e sopportano con una lucidità che fa spavento.
Ma Nefando intreccia numerosi altri temi, tra cui il ruolo salvifico della scrittura e delle parole e quello dei corpi, sede di godimenti e delle più atroci sofferenze, in particolare quando vengono percepiti come corpi non propri, a cui corrispondere, come nel caso di Iván, torture inimmaginabili nella speranza di raggiungere una quiete e una tranquillità sensoriale che sembrano miraggi.
Cos’è che non vedo? Cosa mi viene nascosto nell’incavo del quotidiano, lì, davanti ai miei occhi?: è forse questo il ruolo di Nefando, svelare quella parte di ognuno di noi che nascondiamo, mettere in scena la merda in cui siamo immersi tutti i giorni, ciò che è lì dove non possiamo fissare gli occhi, sulle nostre nuche.
Insomma, quella che Mónica Ojeda ci offre con Nefando è l’opportunità di cercare la forma delle proprie rovine, parlarne con paura anziché con indifferenza, scavare in quei solchi in cui realtà e finzione si fondono, permetterci di raggiungere la nostra parte più profonda.