I Nastri d’Argento sono il più antico riconoscimento per il cinema del Bel Paese, un’importante iniziativa organizzata dal Sindacato Nazionale Giornalisti Cinematografi Italiani che si svolge dal 1946 presso il Teatro antico di Taormina. La 73° edizione della celebre manifestazione – le cui candidature sono state annunciate il 29 maggio al MAXXI di Roma – si terrà il prossimo 30 giugno, arricchita di una novità del tutto eccezionale: per la prima volta nella storia della premiazione, infatti, una donna ha ricevuto una nomination per la categoria migliore fotografia. Si tratta di Francesca Amitrano, che ho avuto il piacere di intervistare.
Francesca, dal 1946 i Nastri d’Argento costituiscono un prestigioso premio cinematografico. Soltanto nel 2018, però, una donna ha ricevuto una nomination per la migliore fotografia. Come mai, secondo Lei, si è giunti così tardi a questo traguardo?
«Quest’anno, per la prima volta, una donna è stata candidata agli Oscar per la fotografia, Rachel Morrison per Mudbound. Questa, secondo me, è ancora di più una notizia che ci fa capire come in realtà non ci sia tanta distanza tra l’Italia e l’America. In generale, non mi piace parlare del mio lavoro pensando alla questione di genere, ma poi mi trovo spesso ad affrontare il discorso perché di fatto sono davvero poche le donne che fanno questo mestiere. Il lavoro del direttore della fotografia è un lavoro a cui si arriva per gradi, nella tradizione è sempre stata una lunga gavetta a portarti su questa strada. Penso che l’avvento del cinema digitale sia corrisposto all’avvento delle donne sul set in ruoli di maggiore responsabilità. Togliere il mistero della pellicola ha dato la possibilità di avere un maggiore controllo dell’immagine da parte della regia e della produzione e, quindi, una maggiore fiducia anche nelle donne.»
Che rapporto ha con la fotografia? Com’è nata questa Sua passione?
«Il mio rapporto con la fotografia è cominciato molto presto grazie ai miei genitori, vedevo mia madre fotografare e mio padre riprendere con una delle prime telecamere. Per loro era una passione, non facevano questo mestiere. Avevo 8 anni, ricordo ancora la mia prima foto, un fiumiciattolo in cui era crollato un piccolo ponte. L’intento era quello di raccontare una notizia. Successivamente, molti anni dopo, ai tempi dell’università, ho pensato che avrei voluto fare la fotoreporter, per fortuna molto presto ho capito che non ne avevo la tempra. Mi sono trovata in situazioni come i giorni del G8 di Genova nel luglio 2001 e poi nel 2002 in Palestina durante la Pasqua di sangue, lì mi è stato chiaro che in situazioni di tensione non avevo la freddezza per tenere in mano una macchina e fotografare. Ho trovato il mio posto quando ho capito che avrei potuto lavorare sull’immagine senza essere in prima linea. Amo i documentari e seguendo un corso con il bravissimo Leonardo Di Costanzo pensai di lavorare in quell’ambito. All’epoca, spesso i documentari deficitavano di cura dell’immagine anche perché i mezzi impiegati erano più economici e la tecnologia era meno evoluta di oggi. Pensai, così, che mi sarebbe piaciuto lavorare per rendere migliori le immagini delle storie che venivano raccontate proprio nei documentari. Poi ho scoperto che esisteva proprio un ruolo per fare questo ed era il direttore della fotografia. Vidi la scena di un film girato sotto casa mia, Il talento di Mr Ripley, e rimasi folgorata da come il cinema potesse trasformare la realtà rendendola magica. Da lì, la domanda al Centro Sperimentale.»
Qual è il Suo rapporto con la fotografia al di fuori del contesto cinematografico?
«Sto cercando di recuperare il rapporto con la fotografia non cinematografica, nel senso che vorrei tornare a fotografare, perché è una cosa che mi piace molto. Oggi, però, rappresenta più che altro una passione che, come tutte le altre, è difficile coltivare per mancanza di tempo. Da poco ho comprato una macchina fotografica a pellicola super leggera in modo da averla sempre con me. Il non doverlo fare per lavoro mi permette di pensare di poter scattare in pellicola… addirittura in bianco e nero.»
Com’è essere un direttore di fotografia donna in Italia oggi?
«Sono molto contenta di fare il mio lavoro e mi ritengo anche molto fortunata. Quello di direttore della fotografia è un lavoro di team, si fa parte di una squadra, e se oggi sto facendo quest’intervista è perché ho partecipato a dei bei progetti. Io non vedrei mai un film solo perché ha una buona fotografia. Per cui se il film è buono – si parte sempre da una buona sceneggiatura –, lo può essere anche la fotografia. Prima di tutto, penso che sia importante cercare un buon feeling umano sul set, sia con i registi che con i collaboratori. Come donna cerco di mantenere sempre l’armonia. Questo mestiere mi fa pensare al circo, i “cinematografari” sono spesso in giro, lontani da casa e convivono per settimane, a volte per mesi, tutti i giorni, può essere faticoso.»
Di quale film avrebbe voluto dirigere la fotografia?
«Penso a due film che sono completamente opposti: mi sarebbe piaciuto fare la fotografia di Frida di Julie Taymor, perché parla di una grande artista e perché c’è stato un bellissimo lavoro di scena, costume e fotografia. L’altra pellicola è Tree of life di Terence Malick, in cui il lavoro sulla luce naturale è commovente. Parliamo di Rodrigo Prieto e Emmanuele Lubezky, due direttori della fotografia che amo moltissimo, entrambi messicani.»
Come si traduce l’idea di un regista in immagine?
«Importante è stare in ascolto. A volte basta una parola, a volte un riferimento, addirittura un pezzo musicale. Come uno strumento ti devi accordare al servizio della storia che stai per raccontare. Il mio fine è cercare di tradurre in immagini il racconto aggiungendo un pizzico di magia.»
Secondo Lei, i cellulari hanno in qualche modo “ammazzato” la fotografia?
«Assolutamente no. Penso che i cellulari abbiamo reso più accessibile la fotografia. Oggi, chi lavora con l’immagine deve essere ancora più bravo perché il pubblico è più esigente.»
Che progetti ha per il futuro?
«In questo momento sono sul set dell’Ispettore Coliandro con la regia dei Manetti Bros. Riguardo i progetti per il futuro preferisco non parlarne perché sono scaramantica e, come diceva San Tommaso, finché non vedo non credo.»