Napoli, Napoli, sempre e solo Napoli. Ma di quale città parliamo, in fondo? Di quella consumata dai turisti? Oppure di quella rivendicata, amata e odiata dai suoi abitanti? Della Napoli letteraria, cinematografica, popolana, camorristica? Se lo chiedono i diciassette autori e autrici presenti in questo testo edito da Solferino che raccoglie altrettante storie, racconti, reportage urbani, allo scopo di staccarsi da certe narrazioni stantie.
Mirella Armiero, la sua curatrice, lo spiega in apertura: Ciascuno degli scrittori, allora, ha scelto di indagare percorsi obliqui, periferici, lontani dalla cartolina classica ma anche dal gomorrismo che ha caratterizzato il racconto di Napoli con un nuovo serbatoio di luoghi comuni. (p. 9)
La questione è una e ce lo dice il titolo stesso: Napoli stanca. Io aggiungo un punto interrogativo alla fine, come provocazione e anche come scintilla di dibattito. Probabilmente non sono la persona più adatta a porre questa domanda né a fornire una risposta, perché i miei sentimenti per Napoli rasentano la cieca devozione, dunque uscire dal tracciato e ascoltare altre voci è sempre un esercizio utile.
Come ci dice la prefazione, alcuni interventi sono racconti, altri reportage narrativi, altri ancora scritti di tipo saggistico, quasi tutti autobiografici. Inevitabile, direi. Facciamo qualche esempio: in apertura, Benedetta Palmieri, autrice Feltrinelli e Nutrimenti, esordisce con un breve pamphlet in cui, attraverso tanti “vorrei”, ci dice cosa desidera e non per la città; Gianluca Nativo, classe Novanta, autore Mondadori, salta dal centro di Napoli alla periferia nord-est, un po’ in stile Lanzetta, raccontandosi dal punto di vista della “gente di campagna”; Athos Zontini, autore Bompiani, fa un’interessante disamina di ciò che accade intorno al Petraio, soprattutto quando gli eventi riguardano le scalinate della Pedamentina.
E ancora: il bellissimo racconto/quasi sceneggiatura, di Fortunato Cerlino, attore partenopeo noto ai più per la parte di Don Pietro Savastano in Gomorra; la disamina letteraria di Fuani Marino, autrice Einaudi; “la personale infanzia” di Alessio Forgione, che ha esordito in narrativa con un romanzo dal titolo Napoli mon amour (curioso), che ci conduce nel mondo della musica, precisamente del rap napoletano; il lungo intervento di Eduardo Savarese, magistrato, giudice e scrittore, intorno al Vesuvio, alle carceri, al lutto e al teatro (meraviglioso); le interviste di Peppe Fiore, scrittore e sceneggiatore, ai bagnolesi, alla ricerca delle testimonianze di chi ha vissuto l’Italsider.
Insomma, senza citare tutti, si tratta di frammenti di un discorso che cerca di rimestare nel calderone e di estrarne l’insolito, il non detto, il non ancora scritto. Ma è davvero così? Di Napoli, ormai, pare sia stata raccontata ogni cosa. Cosa rimane allora a chi sente il desiderio di capirla, di viverla? Non facciamo di tutta l’erba un fascio, non esistono solo turisti e consumatori del friggi e fuggi: ci sono anche, e non sono poche, persone che si sforzano nonostante la fatica (e qui si giustifica il titolo del testo) di amarla.
Dire che Napoli è una città che stanca pare quasi scontato: troppa gente, troppa disorganizzazione, troppi cantieri e immondizia e buchi neri amministrativi, troppo tutto. Benedetta Palmieri riporta nel suo intervento un’invettiva di Erri De Luca che elenca tutto ciò che c’è di bello in città – il mare, la vita notturna, la cortesia, l’eccellenza del caffè e della pizza – per rispondere a una di quelle classifiche di qualità che, inevitabilmente, trascinano Napoli sempre agli ultimi posti. Fa di più, però: trascrive anche la replica di Peppe Lanzetta, che risponde elencando a sua volta tutto ciò che c’è di brutto – i morti ammazzati, le rapine, gli scippi, il manto stradale disastrato, i finti zoppi e i finti ciechi.
Dunque la domanda nasce spontanea: Napoli si riduce a questo? A una medaglia piatta che possiede solo due facce? O bellezza o munnezza, o splendore o degrado. Forse queste dicotomie un po’ le abbiamo superate, ma tutto ciò che sta in mezzo tende o verso un polo o verso l’altro. La stanchezza, ad esempio, che è protagonista di questo testo, ovviamente viene catalizzata dall’estremo “cattivo”, ma a me viene da dire che è la stessa stanchezza che stanca e che essa potrebbe anche essere una scusa per fermarsi un momento e osservare. Dov’è che corriamo tutti? Insistiamo per forzare i tessuti temporali, per sottolineare sempre e senza cognizione di causa ogni più piccolo difetto, oppure, all’opposto, siamo ciechi di fronte agli incidenti, ai fossi, alla falsa cortesia.
Sono arrivata a Napoli nel 2007 in piena emergenza rifiuti e, a quel tempo, la fermata della metropolitana di Quattro Palazzi era in costruzione. Nel 2023 quella fermata ancora non è accessibile. Ogni tanto, quando ci scorro davanti con la macchina o a piedi, mi domando se farò mai in tempo a vederla completata. Questo pensiero mi stanca? Certo, è frustrante. Ma non è frustrante per me, che potrei anche usufruirne un giorno, mi sfianca perché cerco sempre di capire il perché e non trovo quasi mai risposta. Si tratta di un inappagamento, non di una critica a priori, eppure se Napoli fosse iper efficiente, iper funzionale, se fosse “perfetta”, staremmo qua a parlarne?
Non è forse tutto ciò che la rende soggetto artistico? Ovviamente non sto dicendo che si debbano giustificare l’inettitudine e i mille problemi, che si debba scusarla solo perché è fotogenica, telegenica, cinematografica, ma di che parliamo quando parliamo di Napoli? Peppe Lanzetta non avrebbe scritto niente senza il degrado della sua periferia; Patroni Griffi non avrebbe avuto femminielli da raccontare; Rosi non avrebbe girato Le mani sulla città; Sorrentino non sarebbe nessuno, se non un regista che parla di Roma dal punto di vista di un vomerese; Ermanno Rea non avrebbe pubblicato Napoli Ferrovia; io stessa non starei qui a scriverne e questo testo di Solferino non sarebbe mai uscito.
Sono ipotesi, no? Provocazioni. Anche a me è capitato di maledire la lentezza burocratica, gli autobus che non passano, lo schifo della circumvesuviana, i teatrini falsi a uso e consumo dei turisti, il sempre più crescente aumento dei prezzi degli immobili, il traffico impazzito che ti costringe a spendere ore per fare due chilometri. Tutto questo stanca, è indubbio, ma ci fornisce anche materiale narrativo. Chissenefrega però se da San Giovanni a Teduccio devo arrivare al Vomero e non ci sono autobus, le fermate della metro sono intasate, sudo e perdo tempo e vengo anche fermato da una turista giapponese che vuole che le scatti una fotografia, chissenefrega dell’arte e della letteratura.
La Napoli contraddittoria allora è solo creta nelle mani degli artisti e degli intellettuali? E non stanca forse anche la narrazione di Napoli come città del sole e del mare? A me sì, e di più dell’ora che perdo nel traffico. Allora forse si dovrebbero ridefinire le coordinate di questo sentimento, la sua geografia, la sua toponomastica. Non si deve certamente smettere di parlare di Napoli, di raccontarla, ma tocca chiedersi in che modo e perché. Ma soprattutto per chi.