Mi sono spesso domandato perché le persone della mia età, o addirittura i ragazzi più giovani, ventenni o anche adolescenti, alla domanda Chi è il calciatore più forte di sempre? rispondano con il nome di Diego Armando Maradona.
A pensarci bene, quello appena descritto è un fenomeno che accade soltanto nel calcio e in nessun altro sport. Basti pensare al basket dove, sì, viene universalmente riconosciuta la magnificenza di Michael Jordan ma, spesso, le nuove generazioni non esitano a indicare fenomeni più recenti come Kobe Briant o LeBron James alla stregua della stella dei Bulls. Oppure al tennis, dove le giocate di Federer si sono imposte su quelle di Pete Sampras, o alla Formula 1 con Hamilton a scalare questa speciale classifica a danno di Schumacher o del mito Senna.
Maradona no. Maradona è universale, riconosciuto da chiunque come il più grande di sempre, persino elevato allo stato divino anche da chi non lo ha mai visto giocare. Non regge neppure la spiegazione dei video ancora in giro sul web o su YouTube, dato che non ne mancano certo delle altre stelle sopracitate. E, allora, perché? Cosa differenzia Maradona da Jordan e Senna? La risposta – forse – sta nell’evento che a breve la città di Napoli festeggerà per la terza volta nella sua storia: lo scudetto.
Non è l’eccezionalità dell’occasione a generare questa euforia collettiva o il trofeo in quanto tale. È vero che soltanto i nomi dei vincitori restano scritti nei libri di storia, ma siamo proprio sicuri che quelli di Kvaratskhelia e Osimhen prenderanno posto accanto al Pibe de Oro? Ma manco per sogno.
La straordinarietà dello scudetto del 1987 – e dunque l’inizio dell’ascensione di Maradona – risiede nel riscatto sociale che quella vittoria rappresentò per Napoli e il popolo napoletano, l’occasione di togliersi di faccia lo scuorno che dal terremoto del 1980 ritraeva la città soltanto con le immagini della camorra e la celebre frase di Edoardo che sentenziava fujtevenne.
Quando, nel 1984, Maradona calcò il prato del San Paolo (oggi intitolato a suo nome) per la prima volta, tutti sognavano quanto poi sarebbe accaduto, ma nessuno avrebbe potuto credere che il riscatto della città potesse avvenire tramite un pallone di cuoio. Il buio a cui Napoli sembrava condannata dalle vicende di malaffare che si susseguivano di continuo venne scacciato dalle luci dello stadio di Fuorigrotta. Ma non solo.
La bellezza dei vicoli era deturpata dalla pirateria e il contrabbando che occupavano gli angoli di tante, troppe strade del centro storico e della periferia. I palazzi dei Quartieri Spagnoli erano rimasti sfregiati dalle crepe del terremoto; l’eroina e la cocaina trovavano in Napoli uno dei mercati più grandi e floridi del mondo. L’Italsider chiudeva i battenti, Giancarlo Siani e il libero giornalismo venivano assassinati la notte del 23 settembre 1985 a bordo di una Mehari di colore verde.
Il boato del San Paolo alla domenica era l’urlo di disperazione di intere generazioni, una liberazione che sfociava nella felicità più delirante alle giocate di Maradona, qualcosa di mai visto prima che stava finalmente accadendo e stava accadendo a Napoli. Quello che sembrava un decennio destinato a restare nel buio ritrovava luce nelle prime storiche vittorie degli azzurri. Erano gli anni di Pino Daniele e Massimo Troisi, che assieme al Dio argentino, raccontati dalla voce di Gianni Minà, riscattavano con la gioia una città che desiderava ritrovare la propria anima ribelle sopita. Erano gli anni di Andy Warhol, eppure tutto passava dai piedi di Maradona, il San Paolo era il centro del mondo.
Le cose, per fortuna, sono cambiate da allora e associare il calcio al riscatto sociale della città non solo non ha più senso, ma non è più necessario. Il terzo scudetto della società azzurra, che da qui a qualche settimana verrà festeggiato in ogni angolo della città, viene dopo anni in cui Napoli ha goduto di una ribalta internazionale senza precedenti, un’attenzione mediatica che – nonostante i tentativi di isolamento della politica e la solita, squallida narrazione monotematica della stampa – l’ha proiettata al ruolo di meta più ambita d’Italia, di certo la più vivace.
La crescita turistica di cui ha goduto il golfo partenopeo una volta superata l’emergenza rifiuti ha dell’incredibile. Le immagini della Coppa America della vela e, successivamente, le telecamere del Giro d’Italia, nei primi anni del secondo decennio 2000, hanno mostrato al mondo intero una cartolina finalmente rinata, una fotografia da esplorare. Così, sulla spinta di quei forestieri che sono torntati a invadere le vie del centro, anche i quartieri più periferici – proprio il fulcro di quelle vicende a tinte oscure degli anni Ottanta, i Quartieri Spagnoli e il Rione Sanità – hanno cambiato faccia e trasformato il loro destino, aprendosi all’accoglienza e, dunque, a una ritrovata offerta culturale e sociale.
La città è, ormai, set delle principali serie tv nazionali (Gomorra, L’amica geniale, Mare fuori, Il commissario Ricciardi e tante altre), madre degli scrittori ai vertici di qualsiasi classifica di vendita, teatro della squadra di Spalletti, prossima a cucire sul petto i colori del tricolore.
Finalmente, Napoli potrà gioire del suo successo sportivo senza dovergli affidare l’onere del riscatto, godere del momento senza invocare rivincite contro nessuno, semmai proprio verso se stessa, con la regressione innescatasi con la pandemia che sta mostrando un’immagine sbiadita rispetto a quella di appena pochi anni prima, e con le cronache di questi ultimi giorni – come l’assurdo assassinio del diciottenne Francesco Pio a Mergellina o la sfilata violenta dei tifosi tedeschi della scorsa settimana – che sembrano voler riportare la memoria a quegli anni da cui il sinistro di Maradona la tirò fuori con gioia.
Per questo, scudetto sì, riscatto sociale no. Per questo, alla domanda Chi è il calciatore più forte di sempre? ancora risponderanno con il nome di Maradona.