a Veronica Di Marino e Maria Palma Iavarone
Le macchine per la dialisi hanno sigle come i robot di Guerre Stellari. Ci puoi anche parlare. Fresenius, uno dei loro marchi, ricorda il nome di uno jedi o di un alchimista del Cinquecento, uno di quelli che filtravano anche il sangue in capienti storte e si chiedevano perché questo elemento, portato a ebollizione e fatto seccare, fosse uguale per colore e consistenza a una zolla. La somiglianza li portava ad ardite analogie e a sistemi dottrinali apparendo loro, il sangue, la sintesi – vitale – condensata di etere, acqua, terra, fuoco.
I medici di oggi sono i doctores di allora, personaggi alla Molière, molto filosofi poco fisiologi, e devono l’evolversi della loro professione a Telesio, Bacone e Galileo. Il sangue, come l’acqua, ha una memoria, è un Lete che non fa dimenticare ma ricordare i tuoi meandri; dentro il filtro dialitico si sedimentano i minerali delle stelle e i protozoi bioluminescenti. Mi chiedo spesso se, quando facciamo le analisi, non sia possibile scoprire tracce di ossidiana, oro, zolfo fino all’ammoniaca delle comete (non starò, per caso, ragionando come un doctus?).
Il mio trattamento dialitico avviene a Pozzuoli. A due passi fu decapitato Gennaro. È nel giorno del suo miracolo che il mio sangue, per simpatia inversa, diventa denso di kriptonite. Quel giovane vescovo tolse a Virgilio il patronato su Napoli proprio per la potenza del sangue, molto vicino al saper-sentire del popolo, il cui dire quotidiano chiama sempre in causa quell’elemento. Virgilio raramente ne parla. I dializzati sono sotto tutela della sua pietas, l’inglese care, il prendersi cura (sì, quella di Heidegger). Gennaro butta il sangue un paio di volte all’anno; a chi sta in dialisi, invece, si scioglie ogni due giorni. Che ridere: Gennaro, ianuarius-ianua, porta, inizio di un ciclo, è omologo a Janus, Giano. Giano ha due teste, Gennaro l’ha persa.
È quando ho iniziato la dialisi che ho scoperto di avere sangue, che ne percorro le sue misture e misteri. Prima, era per me lo ius iurandum siglato con un sacrificio cruento o era quanto contenuto nel De sanguine di Lombardi Satriani o il nero flusso delle ecatombi. Talvolta, se, steso sulla poltrona di contenzione, chiudo gli occhi, come un Odisseo mi preparo per la discesa agli inferi e mi appaiono, evocate dal cruore dei buoi, fanciulle con l’animo impenetrato dal dolore.
La sala dialisi spesso è un rabat di voci: dal soffuso bis-bis di bisbigli e orapronobis, da silenziosi e inconfessati miserere, al colloquiare degli infermieri, tutti orientati al paziente. Qualcuno di noi simultaneamente bestemmia e invoca kyrie eleison (signore, sollevaci) dalla posizione supina, da una stasi tra stupor e coma.
Un dializzato perde il senso dell’auto-percezione, quando – capita durante tutte le sedute – immagina i propri fantasmi, i suoi fatti e omissioni, non può fuggire: il vissuto lo assedia mimetizzandosi come i felini di Henri Rousseau. Meglio, dunque, fingersi morti. Ma chi sta in dialisi si perde anche perché non ha risposte per la domanda, alla Chatwin, che ci faccio qui? Meglio: come sono finito qui? La quiete dei pazienti si trasforma sempre in inquietudine. Ecco: l’inquietudine, l’in-qui, il vedere le lancette dell’orologio immobili una sull’altra mentre il tempo, come un monaco sordo, ti ispeziona il soma, ti perquisisce. Non c’è differenza tra il morbo sacro, l’epilessia e uno stato catatonico auto-indotto. La mente del paziente è agitata da requiem senza pace, ascolta lo zzz di mosche morte; la sua posizione, fisica e mentale, è da ipogeo in una Cuzco sotterranea. Io ho escogitato strategie, trappole per ingannare il tempo: la mia ombra gioca con una palla colorata sotto la poltrona, perdo il tempo fino a che non mi riporta alla coscienza il dlin-dlon della macchina spiona quando registra sbalzi tra flusso arterioso e venoso. Ho fatto un esperimento: se mi abbuio, la macchina fa scattare l’allarme.
I medici hanno un sesto senso. Forse avvertono la radiazione di fondo dei tuoi pensieri, la tua vibrazione quando supera i 432hz dell’universo. Mentre ti incapsuli come un egosauro e diventi un fossile sotto gli atomi di Democrito, ecco che i medici ti appaiono, ex machina, sorridenti, ecco che ti toccano, perché il tocco è magico, come l’abracadabra del loro linguaggio, e ti accorgi che, non più distratto da te stesso, dalla pressione della tua vita, alla tua ombra non scende più sangue dal naso. Questo fluido rosso durante la terapia va e viene mediante due lunghe cannule, le linee, che si intrecciano come i serpenti di Esculapio, sottraendo veleni e somministrando antidoti. Del resto, sangue è precisamente la sinuosità del serpente: s’anguis.
Quando entri in sala dialisi ti punge un odore di umano, di ghenos, miasma, di tragedia in corpo. Se stai nel metrò o in un luogo pubblico percepisci subito la presenza di un dializzato da quest’usta o dalla pelle un po’ pergamena. Una volta da me venne una psicologa, riccioluta e con occhi sagittari. Mi chiese a cosa stessi pensando. Non penso. Sto sul Pamir, risposi. Il nostro colloquio fu sigillato dal patto, di sangue, di accettare il dolore senza dolersene. Ma – chiosai – il più grande dolore è non aver dolore (Budda, Epitteto). Annotò su un taccuino il paradosso.
Si pensa spesso alla possibilità di un trapianto. Se riesci ad accettare la dialisi a vita, essa non ha soluzione e dunque non è un problema. Se pensi al trapianto, è il trapianto il problema (della serie la soluzione è il problema).
Penso che gli ingegneri e i medici che hanno progettato e realizzato le macchine dialitiche siano dei geni. Tra loro, c’è Quirino Maggiore. Quirino Maggiore: il nome di un Nume. Penso anche a quanti sono morti perché questa malattia-sicario, asintomatica, era ignota. Forse Mozart, forse Leopardi. Nessuno sa quanto fosse scugnizzo Giacomo (altro che mutrìa e pessimismo). Il medico gli prescrisse una dieta da cardellino ma lui di mattina bighellonava rimpinzandosi di sorbetti al limone e, verso mezzanotte, si ritirava a casa e Voglio i maccheroni, tra l’esasperazione e i chi t’è mmuorto del cuoco. I dializzati si comportano come lui, diventano ghiottoni e gourmet fantasiosi di tutto ciò che non devono ingurgitare, hanno come argomento fisso lo gnam-gnam, ’o mmagnà, per cui diventano Esaù davanti alla lenticchia, compongono odi al fagiolo e sestine alla patata. Ma, prima, viene l’acqua: le loro fauci sono di silicio e sabbia, il loro fiato è polvere da sparo. Ah, dimenticavo: ci sono anche l’argenteo potassio e il dorato fosforo. Il primo ho imparato a gestirlo con l’alambicco. Per il secondo sono condannato: sarà sempre alto perché ne produco geneticamente in grandi quantità (sono troppo intelligente).
Mentre scrivo queste note per condividere un’esperienza, mi chiedo perché mi sia diretto, motu proprio, verso la storia, gli archetipi, i simboli. È normale anche questo: il sangue è un fiume in cui vengono a galla le tue immagini, quelle più antiche, secretate e sedimentate nell’occipite e, se potessi vedere al microscopio i suoi residui nel filtro, sono certo che l’effetto sarebbe quello di un caleidoscopio.
Sapevo che prima o poi avresti scritto qualcosa di stupendo su questo argomento. Molto toccante ! Resti sempre un grande !
“Il più grande dolore è non aver dolore.” Tu riesci a spremere senso pure dal non dolore, dal non pensare.