Ministro, smetta la divisa. A chiederlo al Vicepremier leghista, stavolta, è il Sindacato Italiano Lavoratori di Polizia, gli agenti di cui vuole farsi capo – e non carico –, stanchi ormai di prestargli felpe e t-shirt che tutelano lui e denigrano loro all’ombra dell’incostituzionalità, la sua zona comfort.
Il SILP, espressosi per voce di Daniele Tissone nelle aule di Montecitorio in occasione dell’udienza dello scorso 4 luglio presso le Commissioni riunite Affari Costituzionali e Giustizia della Camera dei Deputati, infatti, ha chiarito, come più volte nel corso di questi mesi, la posizione sua, quindi dei numerosi iscritti, nei confronti dell’operato dell’attuale governo e, in particolare, del Ministero che compete a Matteo Salvini, cui spetta la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica tramite il coordinamento delle forze di polizia, costantemente al centro del dibattito.
Nello specifico, l’ultima relazione resa nota dal Segretario Generale ha voluto porre l’attenzione su molteplici temi d’attualità, primo su tutti il decreto sicurezza bis, aspramente disapprovato sia per i contenuti sia per la sua natura di decreto, quindi di strumento apparentemente indispensabile in modo subitaneo: L’audizione – si legge nel documento ufficiale – è sempre una gradita occasione di partecipazione democratica e una preziosa opportunità di poter offrire un contributo al legislatore ma, nella circostanza, potrebbe risultare purtroppo parzialmente tardiva in quanto il solco, il cui orientamento appare alquanto discutibile, risulta già tracciato dal primo decreto legge. Con amarezza assistiamo a una falsa quanto sfuggente rappresentazione della realtà in cui, invocando motivazioni di necessità e urgenza inesistenti, al Parlamento viene impedito di affrontare tematiche delicate attraverso la dialettica democratica del procedimento legislativo.
Un attacco preciso e ponderato che ben si sposa con i dati di cui il Ministro sarà sicuramente al corrente – nel dubbio, alleghiamo i numeri diramati dalla Direzione Centrale della Polizia criminale (informazioni, tra l’altro, rese note anche dalla pagina del Viminale) –, secondo i quali in Italia non c’è alcuna emergenza in termini di illegalità. I reati commessi, le cifre parlano chiaro, sono in netto calo (-15% nel primo trimestre dell’anno rispetto allo stesso periodo del 2018, comunque in linea con una riduzione già in atto da tempo), in barba a un allarmismo più e più volte alimentato – in particolare quando al governo vi erano i nemici del Partito Democratico –, che racconta di un’improrogabile legge sulla legittima difesa – diciamocelo, nei fatti tanto fumo e poco arrosto –, e di una situazione nel Bel Paese del tutto fuori controllo.
Fuori controllo, invece, sono gli italiani e le paure a loro trasmesse, immotivate e puramente promozionali, violente nei toni e nelle conseguenti reazioni. Prova ne siano le reiterate minacce di morte al gip di Agrigento che ha scarcerato Carola Rackete, il capitano della Sea-Watch 3 che attenderà Salvini prossimamente in tribunale, o le bambole gonfiabili e gli altarini bruciati dedicati all’ex Presidente della Camera Laura Boldrini, giusto per citarne alcune. Senza dimenticare, poi, gli attacchi al giornalista Roberto Saviano – più volte intimato di vedersi sottrarre la scorta – e il rinnovato gusto per le ronde e le esternazioni tipicamente fasciste di una fetta di cittadini nostri connazionali. Tutti, o quasi, esasperati da timori infondati. La sindrome dell’uomo nero, ad esempio.
A tal proposito, l’audizione del SILP si è concentrata anche sulla questione immigrazione regolata dal decreto di cui sopra che ha introdotto una specifica disposizione contra naves, le tanto odiate ONG, attraverso l’imposizione di un’ammenda pecuniaria che va dai 10mila ai 50mila euro in caso di violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane, nonché il sequestro cautelare e la confisca amministrativa in caso di recidiva. È evidente – ha sottolineato il sindacato – l’intento di non sottoporre al preventivo vaglio della magistratura, potere indipendente in uno Stato di diritto, atti ablatori di rilevante portata e aventi riflessi di natura internazionale e, a cascata, ripercussioni diplomatiche. Esattamente ciò che sta accadendo nelle ultime settimane, caratterizzate da uno scontro di caratura continentale in tema sbarchi e accoglienza.
Tutte queste costruzioni giuridiche afflittive hanno come presupposto l’insicurezza, percepita e veicolata, in gran parte, da campagne propagandistiche che instillano le paure, mentre tutte le rilevazioni e i dati oggettivi – come anticipato in apertura – indicano i vari fenomeni criminali in diminuzione o, comunque, non rispondenti all’allarme sociale suscitato. Si percepisce, ben dissimulato, il rifiuto del dibattito egualitario come momento di confronto, capacità di ascolto e rispetto delle opinioni altrui, specie se diverse da quelle di chi è in quel momento al governo.
Mozioni che al Ministro muoviamo anche noi altri, i buonisti, i radical chic, i delinquenti dei centri sociali – dunque, stando alla sua visione del mondo, ben distanti dai poliziotti –, quelli a cui lui manda bacioni ma non ascolta mai, convinto di una strada che sta isolando l’Italia non solo dal resto d’Europa – quello democratico –, ma anche dall’umanità intesa come supporto e scambio reciproco. Una strada pericolosa che ci vuole pieni di rabbia e frustrazione, sentimenti manipolatori dei quali, però, si possono perdere facilmente le redini. Motivo in più per non sottovalutare le parole del sindacato che da tempo denuncia le condizioni di stress, fisico e psicologico, a cui gli agenti sono sottoposti e la necessità di una riforma che tuteli, supporti e dia nuove garanzie alle forze dell’ordine, da non confondere o generalizzare con chi ha sporcato di sangue il G8 di Genova, la vita di Federico Aldrovandi o quella di Stefano Cucchi.
Proprio il SILP, dallo scorso giugno, ha lanciato un’iniziativa per contare i giorni che passano senza contratto di lavoro per le donne e gli uomini in divisa. Come denunciato dal Segretario Tissone, infatti, da parte dell’esecutivo pentastellato, da parte di un governo che solo a parole promette maggiore sicurezza, non vi è stata alcuna convocazione dei tavoli dopo oltre cinque mesi dalla scadenza. Anche gli sbandierati rinforzi di personale sono relativi a mobilità ordinaria e a vecchi bandi, di certo non a nuovi concorsi freschi di emanazione. Gli agenti, quindi – al pari di tanti altri lavoratori –, intendono ricordare al governo le proprie inadempienze. Inadempienze che non si risolveranno certo con un cappellino o un giubbotto, tantomeno con l’ostentazione di un logo che non è un marchio pubblicitario, bensì un organo statale a cui compete la tutela dei cittadini, in primis di chi ne fa parte, che risponde alla Costituzione e alla democrazia, al di là delle personali idee politiche in cui l’uniforme non deve e non può riconoscersi. Altrimenti, rischierebbe un’accusa di attentato alla Repubblica. Ma anche di questo il Ministro sarà sicuramente al corrente.
La ricerca del consenso – ha continuato il sindacato – da una parte carica sulle spalle delle Forze di Polizia l’aspettativa dei risultati promessi con la propaganda, mentre dall’altra, specie durante le occasioni di protesta, inasprisce la contrapposizione tra i cittadini dissenzienti, che vengono etichettati come nemici, e chi è deputato a far rispettare la legalità quindi a contemperare la difesa dei diritti di tutti, viene visto, a sua volta, come il nemico dei nemici. Certamente non il modo migliore per trasmettere sicurezza e generarne di nuova, alzando piuttosto l’asticella del pericolo avvertito e anche la sete di giustizia fai da te che pare aver contagiato tanti, troppi italiani, accecati da odio e insoddisfazione e incapaci ormai di discernere verità da menzogna, evidenza da fandonia.
Questo peggiorato clima di relazioni sociali, che vede nella sola repressione di condotte ritenute devianti o comunque difformi e in contrasto con il pensiero e i desiderata di chi governa, rischia di portare alla strumentalizzazione delle FF.PP., come braccio armato e violento dell’esecutivo del momento, quasi a voler far tornare indietro di quarant’anni la storia. Un salto temporale tangibile nella nostra quotidianità e che, tuttavia, non possiamo affatto permetterci, né noi né il Vicepremier Salvini, il quale ha giurato di difendere la Carta Costituzionale, di applicarla, di diffonderne il valore anziché calpestarla come spesso successo nel suo lungo anno di governo.
Se soltanto per un momento si smettesse di puntare il dito verso l’immigrato, il diverso da sé, se il Ministro smettesse la divisa affinché non sembri che sia lui la polizia o che questa sia al suo servizio, forse si potrebbe concretamente pensare a una rinnovata garanzia di ordine – più che necessaria nel Paese dell’impunità –, a un investimento serio e concreto in termini di sicurezza – basti pensare che l’attuale esecutivo ha stanziato 1 miliardo e 700 milioni di euro, mentre il governo precedente aveva messo a disposizione quasi 2 miliardi –, salvaguardando gli agenti e i cittadini tutti, attualmente illusi che si possa sparare a un uomo e uscirne da eroi. Una follia che per fortuna non è realtà, pure se la politica prova a convincercene.
Se il nemico si cercasse in casa nostra, tra corruttori, mafie e affiliati, delinquenti made in Italy sempre pronti a diffondere malavita, forse Salvini potrebbe per un attimo farsi ministro di tutti gli italiani che è chiamato a rappresentare, pure di noi che non la pensiamo come lui, pure dei poliziotti che non sono uomini suoi, ma nostri, dello Stato, uno Stato di diritto che va difeso a tutti i costi, non dalla divisa ma da chi la usurpa, non da chi contesta ma da chi lo impedisce. Dagli attentatori della democrazia.