Da oggi, 26 aprile, i cinema italiani riaprono esclusivamente in zona gialla e tra i primi film distribuiti c’è Minari, piccolo gioiello di questi Oscar 2021. Candidato a ben sei statuette – miglior film, miglior regia, miglior attore protagonista a Steven Yeun, migliore attrice non protagonista a Yoon Yeo-jeong, migliore sceneggiatura originale e migliore colonna sonora a Emile Mosseri –, il film si è portato a casa quella di migliore attrice non protagonista a Yoon Yeo-jeong. Si era però già distinto in precedenza, nel gennaio di un anno fa. Aveva infatti vinto il Gran premio della giuria: U.S. Dramatic al Sundance Film Festival 2020 e il Golden Globe per miglior film straniero, ottenendo da subito alti consensi tra pubblico e critica.
Ed eccoci agli Academy. Il regista Lee Isaac Chung propone una nuova, temibile famiglia coreana, stavolta decisamente diversa da quella di Bong Joon-ho in Parasite, che aveva sorpreso il mondo intero, lo scorso anno, aggiudicandosi il premio più ambito, quello di miglior film. Quest’anno, senza dubbio, la sfida con Nomadland di Chloé Zhao, pellicola data per favorita più di tutte, era ardua, ma il potere di Minari non era affatto da sottovalutare e forse ci si aspettava qualcosa di più.
Chung ci conduce negli Stati Uniti, Arkansas, durante gli anni Ottanta. La famiglia coreano-americana Yi, composta da Jacob (Steven Yeun), Monica (Yeri Han), la giovane Anne (Noel Kate Cho) e il piccolo David (Alan Kim), si è appena trasferita dalla California, dove ha condotto una vita piuttosto modesta, mantenendosi con il lavoro di sessatori di pulcini. Il desiderio di Jacob è proprio quello di elevarsi, creando un orto di vegetali coreani per dimostrare ai suoi figli che con sacrificio e duro lavoro è possibile avere successo. Tra lo scetticismo di sua moglie e l’arrivo della strampalata nonna materna Soon-ja (Yoon Yeo-jeong) dalla Corea del Sud, il sogno di Jacob dovrà affrontare non poche avversità, minando seriamente la stabilità economica ed emotiva della sua famiglia.
Prodotto dalla Plan B Entertainment di Brad Pitt – la quale ha già sfornato capolavori quali Moonlight e 12 anni schiavo –, Minari non è semplicemente la storia della famiglia Yi: la sceneggiatura, infatti, è tratta dalla biografia del regista, dalla sua infanzia e dal reale rischio di mollare tutto e dedicarsi a un lavoro più “sicuro”. Il punto di vista privilegiato è quindi quello di David, bambino frenato a causa di una patologia cardiaca che gli impedisce di correre o compiere grossi sforzi. Sembra adattarsi alla nuova vita ma la nonna proprio no, quella donna non riesce a comprenderla, forse perché rappresenta qualcosa di davvero troppo lontano da lui.
Quelle che noi vediamo in Minari sono tre generazioni culturali ben distinte e caratterizzate. C’è la nonna, incarnazione della Corea del Sud e delle sue tradizioni, ci sono i genitori, che riescono a mediare cultura coreana e statunitense, e infine i figli, gli Stati Uniti d’America a tutti gli effetti poiché nati e cresciuti lì. Chung riesce a portare sullo schermo una sapiente commistione di culture senza parteggiare per nessuna, anzi, mostrandone apertamente i tratti anche più singolari. Ed è proprio per la forte presenza di dialoghi in coreano rispetto all’inglese che la pellicola è stata oggetto di polemiche da parte di molti, in quanto ritenuta non adatta alla candidatura di miglior film.
Spicca il personaggio di Jacob Yi, padre amorevole ed entusiasta. Notiamo i suoi errori e le decisioni avventate, eppure non possiamo fare a meno di empatizzare con lui, con il suo desiderio di dare un esempio di successo ai figli, di riscattarsi sotto la pressione di una società che vede ancora il capofamiglia come uomo inutile, da scartare, se non riesce a provvedere adeguatamente ai propri cari. L’interpretazione di Steven Yeun – già noto per la serie The Walking Dead – è degna della sua nomination, oltre a renderlo protagonista di un grande primato: è il primo sudcoreano naturalizzato statunitense ad aver ricevuto la candidatura agli Oscar come miglior attore protagonista.
Ma è la straordinaria performance di Yoon Yeo-jeong ad aver colpito gli Academy, la quale veste i panni di una nonna alternativa e scanzonata. Colei che porta la Corea del Sud negli Stati Uniti, pur sapendosi adattare e facendo pian piano breccia non solo nei cuori dei nipoti ma anche in quelli degli spettatori. La sua mimica facciale, la sua recitazione a tratti sopra le righe rappresenta il perfetto equilibrio tra la peculiare drammaticità ed enfasi del cinema orientale e una maggiore autorialità di quello occidentale.
Una storia di relazioni umane e maturazione personale, inno alla natura e all’inclusione, attraverso il celebre espediente dell’american dream come non viene mostrato solitamente. Il modo migliore per descrivere un prodotto del genere è pura poesia visiva, dove la regia è umile e al tempo stesso ricercata, di classe, per nulla incline a eccessi o inutili virtuosismi. Lo notiamo dalle inquadrature pulite, eleganti, dai paesaggi dell’Arkansas rurale ripresi come fossero tanti piccoli dipinti. L’uso sapiente della luce e dei colori pastello desaturati in base ai momenti negativi o meno della trama rende Minari qualcosa di prezioso senza essere pretenzioso. Consigliato senza ombra di dubbio e stavolta con la possibilità di vederlo, finalmente, sul grande schermo.
Ma cos’è il minari? Trattasi semplicemente del prezzemolo giapponese, pianta nota per la sua resilienza e la capacità di crescere forte e rapida nonostante le avversità. Una metafora, neppure troppo velata, di cosa significa davvero vivere.