Quando, dopo aver recensito la biografia di Gianni Minà (Storia di un boxeur latino – minimum fax), ho detto a casa, durante un pranzo della domenica, c’è la possibilità che riesca a fargli qualche domanda per il giornale, mia madre mi ha guardato incredula: «Gianni Minà ha intervistato il mondo intero, tu dovrai intervistare lui?». Accade questo quando si cita il documentarista ex RAI, reso celebre dai suoi incontri con personaggi del calibro di Muhammad Alì, i Beatles, Piero Mennea, fino a Fidel Castro.
Sempre gentile, mai sopra le righe, la sua interpretazione del mestiere di reporter è quanto, ancora, insegue ogni giovane che approccia alla cronaca. Ebbene, ce l’ho fatta per davvero, ho intervistato Gianni Minà. Una chiacchierata, la nostra, oltre i temi già narrati con grazia nelle pagine di Storia di un boxeur latino.
Gianni Minà, partiamo proprio dalle parole di mia mamma: Lei ha intervistato i più grandi personaggi del Novecento, dalla politica allo sport, e ha viaggiato più volte per il mondo, facendosi protagonista di una vita che vale un romanzo, tant’è che in un libro ci è finito per davvero. Che effetto Le fa, oggi, trovarsi dall’altra parte, essere un personaggio da intervistare e raccontare?
«Mi viene da ridere. Io non mi considero tale, ovviamente. Ho sempre aspirato a fare bene la mia professione. Anzi, ho una passione smodata per la mia professione. Ho passato gran parte della mia vita a cercare e rincorrere i personaggi che raccontavano questo secolo. Avevo e ho una curiosità eccessiva sull’argomento».
Il Suo racconto si apre con le immagini dell’infanzia, tirate fuori delle macerie, quelle del terremoto che rase al suolo Messina nel 1908 e le successive dei bombardamenti del 13 luglio 1943. In entrambe le occasioni perse uno dei suoi nonni. Mi parla dei sentimenti che l’hanno pervasa quando, nel ’76, ha documentato il sisma del Friuli con l’idea di spazzare via quella polvere e ricongiurgersi al proprio passato?
«Quando partii di notte con la mia troupe e un sacchetto di gettoni tra le mani, non sapevo a cosa andavo incontro. Le luci vivide dell’alba mi aprirono uno scenario spettrale: quello che era un paese non era più. Gente impolverata, ma che aveva tra le mani già il badile per spalare le macerie, pronta a ricostruire la propria vita. Pensai subito al terremoto di Messina dove avevo perso, ancora giovane, mio nonno, docente universitario di giurisprudenza. Quegli stessi volti impolverati e spersi li rividi nei filmati del 2001, dopo l’abbattimento delle Torri Gemelle a New York».
Nella Sua biografia si fa riferimento a diversi sport individuali, in particolar modo alla boxe e all’atletica. L’unico personaggio di una disciplina di squadra che L’ha affascinata al punto da cucirne un rapporto di amicizia è stato Diego Armando Maradona. Come mai?
«Maradona è stato il più grande calciatore mai nato. È stato amato dai più umili e odiato dal potere e da parte di alcuni giornalisti. In fondo, i personaggi più controversi sono sempre quelli più interessanti da spiegare. La mia amicizia con lui nasce dal reciproco rispetto, dei ruoli e degli esseri umani».
Ha scritto del giornalismo così: andando in giro ti rendi conto di quant’è varia la voce del mondo, screditando l’idiozia di qualsiasi integralismo e di qualsiasi razzismo. È stato vicino a un gigante come Muhammad Alì che, ispirato da Malcom X, combatteva dentro e fuori dal ring la sua battaglia per i diritti civili. Perché, oggi, dopo cinquant’anni, quelle istanze non hanno ancora trovato risposta, anzi, sembra che il mondo stia facendo pericolosi passi indietro?
«Credo dipenda tutto dal fatto che non siamo stati capaci finora a risolvere, malgrado gli sforzi, il problema più elementare, la fame, la sopravvivenza. C’è ancora troppa gente costretta a elemosinare un pezzo di pane e alla quale sono negati i diritti più elementari. Chi si arroga il diritto di decidere per tutti continua a farlo come se tutto questo lo avesse deciso Dio e pensa ancora che una briciola di pane sia più che sufficiente per risolvere il problema».
Cosa è rimasto di Fidel Castro a Cuba? E cosa è rimasto, a Lei, di Fidel Castro?
«Tutto. Castro ha ideato un sistema, un paradigma che è alla base di quello Stato. Ricordo solo un dato: nonostante la pandemia, Trump ha raddoppiato l’embargo a Cuba, rendendo, ai cittadini dell’isola, ancor più difficile la quotidianità. Per cui, quando parliamo di cosa è rimasto di Fidel Castro, piuttosto dobbiamo parlare come ha fatto la Cuba di Fidel Castro, nonostante l’embargo, a sopravvivere e soprattutto a rispondere con efficienza alla pandemia che ha afflitto con troppi morti tutti i paesi più ricchi, tra cui anche il nostro. Fidel Castro era un intellettuale. Per i cubani, come per i latinoamericani è uno dei Padri della Patria, insieme a José Martí e a Bolívar».
A proposito del Líder Máximo, disse: la storia mi assolverà. Crede giungerà mai quel momento?
«È già successo da tempo, da quando i popoli dell’America Latina, oppressi e miseri, rivolgendosi a Cuba e a Fidel, li definiscono las estrellas de América Latina».
Riconosce in qualcuno, oggi – dal mondo dello sport alla politica –, lo spessore dei personaggi che riempiono le pagine della Sua biografia?
«No, ci sono delle epoche che partoriscono personaggi giganteschi ed epoche sterili. Questo è un periodo, secondo me, di incubazione. Spero che, in un futuro prossimo, possano emergere dei leader che abbiano qualcosa di nuovo da proporre».
Leggendo Gianni Mina – Storia di un boxeur latino si avverte la sensazione che abbia trattato l’allontanamento dalla RAI con fastidio, quasi di fretta. Che segno ha lasciato nella Sua vita e sulla Sua carriera quel momento?
«Forse li dovrei pure ringraziare. Perché se fossi rimasto dentro la RAI non avrei potuto fare la carriera che ho fatto».
Ho concluso la mia recensione del libro con un’amara considerazione: È un’eredità inestimabile la biografia di Gianni Minà. Da giornalista […] avrei voluto scrivere “è una staffetta”, ma sono conscio – e lo affermo con grande amarezza – che nessun altro potrà mai godere della sua libertà. Si ritrova in queste parole? E quale consiglio sente di voler lasciare a me e a chi proverà la stessa sensazione, leggendola?
«Ci vuole molta pazienza, coraggio e passione per crederci fino in fondo. Io sono refrattario a dare consigli. Non ne sono capace. Sono sempre stato un battitore libero perché la vita mi ha insegnato questo. Anche contro i miei interessi. Il mio nord, il mio punto di riferimento è l’etica. Ci sono stati momenti, in alcune interviste, in cui i personaggi mi hanno confessato cose della loro vita che non ho mai inserito in un servizio per farne un facile scoop. C’è un altro modo per convincere qualcuno a parlare con franchezza; a quello sono ricorso oppure ho aspettato che i tempi fossero più maturi per far sì che le persone si aprissero un po’ di più. Sono loro stesse, così, a rendere l’intervista unica».
Qual è il ricordo, tra tutti, a cui Gianni Minà tiene di più?
«Quando nel 2007, al Festival del cinema di Berlino, mi hanno assegnato il premio Berlinale Kamera per Cuban Memories, la serie di documentari che ho prodotto sull’Isola della Rivoluzione. In quel preciso momento, ho avuto la certezza di essere arrivato all’apice della mia carriera. È stata una soddisfazione grande, soprattutto perché il mio lavoro, dopo la premiazione, è stato dibattuto da un parterre di professori universitari e studenti. Ovviamente, al mio ritorno in Italia un titolo di un quotidiano nostrano recitava: Anche quest’anno nessun italiano ha vinto a Berlino».
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