Quarantacinque. Sono le vite annegate nel Mediterraneo appena poche ore fa, nelle stesse in cui l’Europa celebrava la giornata internazionale dell’aiuto umanitario. La conferma del naufragio è arrivata ieri, ma la stampa – nazionale e non – non è parsa accorgersene.
Basta sfogliare le prime pagine dei principali quotidiani per rendersi conto che i tempi sono cambiati, che oggi – nemmeno mediaticamente – i morti in mezzo al mare non suscitano interesse. Il perché è presto detto. Troppo presi dal virus di importazione, dai giovani zozzi e irresponsabili che viaggiano dalla Sicilia alla Grecia a suon di ordinanze, dpcm e campagna elettorale, non c’è tempo, adesso, per occuparci – perché preoccuparci sarebbe un passo già ben oltre l’auspicabile – dei poveri disperati che attraversano il Mare Nostrum nella speranza di un presente. E, così, quarantacinque vite si sono perse nel cimitero probabilmente più grande al mondo, al largo delle coste libiche che l’Italia finanzia profumatamente. Trentasette sopravvissuti, invece, sono stati soccorsi da alcuni pescatori e riportati indietro per essere rinchiusi in un centro di detenzione, quelli che un tempo chiamavamo lager. Probabilmente ci riproveranno, quando i trafficanti – a cui la politica internazionale strizza l’occhio – con minacce e violenze prometteranno loro un futuro diverso, la terra dell’abbondanza, un Occidente che non vede l’ora di abbracciarli. E, invece, se non ne ignora l’arrivo, non ne contempla nemmeno la scomparsa.
L’ONU ha definito questa tragedia come il più grande naufragio avvenuto nel 2020, eppure la notizia è passata in sordina. Si è sommata, silenziosa, alle tante di cui abbiamo smesso di leggere da quando l’emergenza COVID ha monopolizzato – e, spesso, distorto – l’informazione. Quarantacinque persone, dunque, sono annegate due volte: la prima, in lotta con i flutti fino a perdere ogni forza, inghiottite dalle nere fauci del Mediterraneo; la seconda, dai paesi della fortezza europea, tra cui il nostro, che annegano insieme ai corpi la dignità umana.
Era appena il 6 agosto del 2019, in fondo, quando l’Italia approvava il decreto sicurezza. Apparentemente era un altro governo, eppure la norma è tuttora in vigore sebbene il Ministro Lamorgese pare abbia pronto un nuovo testo da proporre a settembre. Soltanto poche settimane fa, invece, in Senato si avanzava la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti di Matteo Salvini: 149 voti favorevoli bocciavano la relazione della Giunta delle Immunità che si era dichiarata contraria al processo. Nello specifico, si valutava il caso Open Arms, quando l’ONG con a bordo 164 migranti era stata bloccata a largo di Lampedusa per ben venti giorni. A quel punto, dopo averne ordinato lo sbarco, il procuratore di Agrigento aveva aperto un’inchiesta e iscritto nel registro degli indagati l’allora Ministro dell’Interno con l’accusa di sequestro plurimo di persona e rifiuto d’atti d’ufficio. La stessa politica e la stessa opinione pubblica che il 30 luglio si sgolavano per difendere il leader della Lega o esultare alla decisione di Palazzo Madama non sono oggi pervenute. Peggio, hanno ignorato.
La segnalazione di Alarm Phone dei giorni scorsi era veritiera. Il gommone, la cui richiesta di aiuto era stata prontamente girata alle autorità libiche, maltesi e italiane, è naufragato lunedì: nessuno ha risposto all’SOS. Un silenzio che ha suscitato la reazione di UNHCR e OIM che chiedono, a gran voce, di rafforzare con urgenza le attuali capacità di ricerca e soccorso volte a rispondere alle emergenze, denunciando l’assenza di programmi dedicati e a guida UE. Le due organizzazioni, inoltre, esprimono preoccupazione per gli intralci al lavoro delle ONG che, dicono, hanno svolto un ruolo fondamentale nel salvataggio di vite umane in mare a fronte di una drastica riduzione degli interventi condotti dagli Stati europei. […] L’imperativo umanitario che impone di salvare vite non dovrebbe essere ostacolato e le restrizioni legali e logistiche al lavoro da esse svolto devono essere revocati in tempi rapidi. Dichiarazioni che, per un attimo, ci riportano al prima di una pandemia dalla quale avremmo dovuto uscire migliori e che, invece, ci sta risucchiando con la veemenza che i più attenti hanno sempre temuto.
Non è passato molto, in effetti, da quando le chiamavamo angeli del mare. Le ONG impegnate nel Mediterraneo erano considerate il simbolo della società civile europea pronta ad accogliere e a non abdicare al proprio ruolo dopo il – mai conclusosi – conflitto in Siria e il fallimento della primavera araba. Era il 2015, ma sono bastati appena due anni per catapultarci in un mondo che non avremmo dovuto volere. Nel giro di pochi mesi, infatti, il discorso pubblico è stato deviato: gli angeli sono diventati scafisti, poi persino taxi del mare. La politica ha iniziato a imbastirci su la propria propaganda, le campagne elettorali sono mutate rapidamente, i toni accesi e mai più spenti. La gente ha iniziato a sospettare, poi a odiare senza sosta. La solidarietà si è fatta reato. Da allora, il processo di criminalizzazione non ha saputo più fermarsi, i sovranisti hanno sfigurato il volto dell’Europa come del mondo intero.
Porti chiusi, tweet di fuoco, navi sequestrate, complottismi di ogni tipo. Dallo smalto sulle unghie di Josefa al reggiseno di Carola Rackete, l’umanità ha dimenticato se stessa. La guerra, invece, si è spostata sulla redistribuzione dei migranti che nessuno, dall’Italia all’Europa, ha più pensato di dover – ancor prima di accogliere – semplicemente salvare. I morti, da quel momento, hanno smesso persino di essere un numero. O una notizia. E a questo, nel nostro Paese, non ha contribuito soltanto l’esperienza salviniana al Viminale. La strada del leader leghista era stata tracciata già prima, nel 2017, quando il governo Gentiloni aveva stretto accordi con la Libia – un memorandum tacitamente rinnovato dall’attuale esecutivo, lo stesso che ha appena elargito fondi da milioni di euro alla Tunisia – e il Ministro dell’Interno Minniti aveva pensato a un codice di condotta per le ONG che avrebbe dato voce agli istinti xenofobi dei Di Maio di turno.
È iniziata in quella precisa fase storica la deumanizzazione delle persone di origine straniera: di colpo, sono diventate tutte criminali, terroriste, stupratrici, una massa informe, flussi, ondate, senza nome e senza volto, soltanto pericolo. Il processo di vittimizzazione dei migranti si è rivelato l’arma migliore, in mano alla politica, per cercare la conferma ai propri pregiudizi, la conferma che esistano esseri umani di serie a ed esseri umani di serie b. Persino la morte, la loro morte, è diventata un prezzo, una probabilità, il risultato prevedibile di un’analisi dei costi e dei benefici che include rischi calcolabili e inevitabili conseguenze: un altro modo per decontestualizzare la tragedia e, in qualche maniera, imputare una certa responsabilità ai migranti stessi.
Ecco che allora il silenzio per la scomparsa di quarantacinque naufraghi, le immagini del corpo di un sedicenne ritrovato senza vita mentre tentava di attraversare a nuoto il Canale della Manica o l’inferno di Moria Camp, in Grecia, dove i bambini scelgono la morte perché fa meno dolore, non sorprendono, non se è quello che abbiamo auspicato con questa politica e un odio così ardente da bruciare persino quel poco di umanità sopravvissuta a tanta violenza.
Tutta l’amuchina del mondo non basterà a pulire le mani dei governi europei che si rendono complici di questa strage, ha scritto Cecilia Strada commentando la notizia. Mesi fa, lo avevamo scritto anche noi. Il COVID stava appena rivoluzionando i nostri giorni, ancora non immaginavamo quanto affetto ci avrebbe strappato via. Eppure, tempo dopo, sentiamo che non è cambiato nulla, che la morte altrui ancora non ci addolora, che il nostro miserabile io supera ancora lo straordinario noi. Perché, ammettiamolo, non ne siamo usciti migliori: il razzismo è un virus senza vaccino e noi l’ombra di quel che resta dell’umanità.