I migranti, in Italia, non ci sono più. Non ci sono gli sbarchi, le imbarcazioni in avaria, le emergenze a Lampedusa. Non ci sono notizie, ogni giorno, a raccontarne le storie, le tragedie, il ricatto di un mondo che non li vuole. Sono spariti, da media e tv, da quella folle estate del 2018, quando Matteo Salvini lasciava il Ministero dell’Interno per cedere il posto a Luciana Lamorgese. Eppure, da allora, i problemi, al Viminale, come nel Mediterraneo, non sono cambiati. Solo non fanno più notizia.
È di appena pochi giorni fa l’ennesimo dramma. A raccontarlo è Medici Senza Frontiere che, in missione sulla nave Geo Barents, a nord del tratto di costa tra Zuara e Sabratha, ha soccorso un’imbarcazione in balia delle onde. A bordo c’erano 109 migranti. Dieci erano senza vita.
Le persone morte avevano tutte tra i 18 e i 24 anni, decedute a causa delle esalazioni della benzina dopo essere state obbligate a sistemarsi nella parte inferiore del barcone. Per recuperarne i corpi, i soccorritori si sono serviti delle bombole di ossigeno. Con loro, in quell’aria irrespirabile, alla mercé di un mare affatto calmo, c’erano altri 183 migranti, sopravvissuti a tre diversi salvataggi ma ancora senza un porto in cui attraccare. La notizia, come spesso succede, è passata nell’indifferenza generale, un po’ come quella di un altro naufragio, avvenuto poco dopo, che ha visto la morte di 75 persone al largo della Libia. I sopravvissuti, in questo caso, sono stati 15, soccorsi dai pescatori del posto e riportati nel porto di Zuara.
Secondo il portavoce dell’OIM, Flavio Di Giacomo, dall’inizio del 2021 lungo la rotta del Mediterraneo centrale i morti sono stati 1300, 900 lungo la rotta dell’Atlantico. Le stime, però, rischiano di essere al ribasso. Proprio come le quotazioni che vedono in prima pagina la questione migratoria adesso, che non è il momento di questa propaganda.
Il dibattito sul tema, in effetti, interessa sempre meno, a intermittenza, a seconda dell’umore del periodo e del politico di turno. Così, in questi giorni, di tanto in tanto parliamo di Polonia e Bielorussia, di confini distanti quanto basta a farci sentire meglio, meno colpevoli, più a posto con la coscienza. Morire al freddo dell’Est ci pare disumano; annegare, invece, una casualità inevitabile. E, allora, di sbarchi e Libia quasi non si fa menzione, non ora che al governo ci sono i migliori di Mario Draghi e il suo whatever it takes, un modus operandi che dalla BCE è entrato dritto nelle nostre case e nei palazzi che contano. Non ora che il Premier ha scelto quale primo atto in materia estera di andare proprio in quella Libia e da quei trafficanti a confermare il suo sostegno. Il nostro. Quello di un Paese che finanzia – e rifinanzia – il traffico di esseri umani come fosse normale. Il suo modo, il nostro, per gestire i flussi.
Nella stessa direzione, si muove l’ultima proposta del Ministro Lamorgese che, intervenuta da remoto all’incontro I caporalati oggi organizzato dall’Università del Salento, vorrebbe – secondo un progetto che sta tentando di portare avanti con il governo di Tunisi – i migranti arrivare in Italia in qualità di lavoratori stagionali per la raccolta di frutta e ortaggi: «La strada è avere persone segnalate, individuate, che poi possono ritornare dopo i sei mesi di raccolta nel loro Paese». Una proposta che merita più di una riflessione.
Così presentata, l’intenzione di Lamorgese sembra fare il verso alla sanatoria voluta dall’ex Ministro delle Politiche Agricole Teresa Bellanova che, a più di un anno dalla sua promulgazione, conferma la propria natura di inganno di Stato. Come prevedibile, infatti, i numeri ottenuti dal provvedimento sono insufficienti: a fronte di 207mila domande avanzate da parte dei lavoratori irregolari (che, in totale, superano quota 600mila), solo un terzo delle stesse è stato esaminato, con numerosi e gravi ritardi nelle grandi città – basti pensare che Roma, a maggio, aveva valutato soltanto due domande su 16mila – per un totale di poco più di 60mila istanze accolte, 11mila negate e le tante altre ancora in attesa. Se, dunque, l’obiettivo era il contrasto all’immigrazione irregolare e l’emersione del lavoro nero – in particolare nei campi, dove a farla da padrone è il caporalato – il bersaglio è stato sicuramente mancato: l’85% della sanatoria, infatti, ha riguardato badanti e colf, ma non ha significato miglioramenti dal punto di vista agricolo. Il terzo – e, forse, il più urgente – settore a cui era rivolta.
La regolarizzazione promessa, dunque, è presto fallita e la colpa è da addossare tutta a una politica disinteressata e ambigua, alle solite lungaggini burocratiche e alle carenze di personale che, insieme, hanno partorito una manovra completamente inadatta. Soprattutto per il ruolo centrale del datore di lavoro che, ovviamente, si è rivelato un ostacolo insormontabile, così come il ricorso alla questura – il secondo canale della sanatoria – o la richiesta di idoneità alloggiativa che per chi vive nelle baraccopoli suona quasi come una presa in giro. E una presa in giro non può non essere questa assurda nuova proposta che, travestendosi da buona intenzione, rima, in realtà, con l’ennesimo tentativo di sfruttamento. Peggio: di caporalato di Stato. Una soluzione a cui il Ministro dell’Interno ha spesso strizzato l’occhio.
Già lo scorso anno, prima che la sanatoria fosse approvata, Luciana Lamorgese si era detta contraria a questo tipo di provvedimento, nonostante fosse stato pensato – dalle associazioni che avevano lanciato la campagna sperando di attirare l’attenzione della politica – per far fronte all’emergenza globale e tutelare la salute pubblica. Regolarizzare i migranti, infatti, significava procurare loro dei documenti, garantire assistenza sanitaria e consentirgli di continuare a lavorare nonostante le restrittive misure di contenimento della pandemia. La titolare del Viminale, invece, aveva posto l’accento su una manovra differente che avesse differente finalità: «Nessuna sanatoria. Si pone urgentemente il problema della raccolta nei campi. Non è la regolarizzazione di tutti i presenti ma solo di quelli che servono, e con precise regole. E non sono di certo 600mila».
Quelli che servono. Così li aveva definiti allora, così li definisce oggi. Quelli che servono. Uomini e donne costretti a lasciare le loro case, i loro affetti, la lingua in cui pensano il mondo perché quel mondo, per loro, ha altri piani, altre strade, altri spazi di non diritto. E sono loro, quelli che servono, che Luciana Lamorgese vorrebbe richiamare di nuovo in Italia. Per sei mesi, non di più, giusto il tempo di raccogliere i frutti della terra e poi rispedirli indietro, a subire nuovamente fame e torture. Loro gli schiavi, noi i signori. Loro quelli che servono, noi quelli serviti. È a loro e per loro, d’altronde, che riserviamo i lavori più umili, quelli che chiamiamo così quando intendiamo svilire un mestiere, sia esso la cura della persona, la pulizia o la fatica agricola. Come se non spettasse altro ai migranti, ai disperati, ai poveri. Spezzarsi la schiena. Ammazzarsi di fatica. Spesso, ammazzarsi e basta.
Così, mentre si dà il contentino al popolo tunisino che si illude di avere, finalmente, un’opportunità per trasferirsi e lavorare legalmente in Italia, il nostro Bel Paese stipula accordi milionari con i suoi governanti che sono costretti a riprendersi la manodopera prestata quando non ci servirà più o, peggio, quando i migranti verranno dapprima rinchiusi e poi deportati dai CPR nelle condizioni disumane denunciate da più parti. Succede con i trafficanti libici, succede con quelli tunisini, succede con chiunque neghi diritti e ci consenta di fare altrettanto. Il tutto con la presunzione di essere diversi. Di essere migliori. Di essere italiani, europei, cristiani.
Cambiano i nomi, cambiano i toni, cambiano i mezzi di comunicazione, ma non cambia la sostanza. Non cambia quel modo di fare politica che mette le motivazioni di carattere economico al centro e mai quelle di carattere umanitario. Le dichiarazioni di Luciana Lamorgese, in effetti, si pongono in continuità proprio con la stessa linea tracciata in passato. All’epoca, però, c’era la Bestia. C’era Matteo Salvini. C’era la politica dei porti chiusi. Oggi, c’è il governo dei migliori e quale miglior governo per istituzionalizzare il caporalato? Per istituzionalizzare la criminalità? Whatever it takes. Ci avevano avvertito. A ogni costo.