Contributo a cura di Pierluigi Del Pinto
Dalla metà degli anni Sessanta, le più importanti aziende tessili hanno cominciato a ricercare un modo per rendere impermeabili la pelle e il materiale tessile: tra queste, la Rimar di Trissino in provincia di Vicenza e la Dupont di Parkersburg, in West Virginia. In entrambi i casi, però, una storia di ricerca industriale diventa una storia di inquinamento dell’acqua potabile.
Nella lavorazione delle pelli di acqua ne serve tanta. Per questo Rimar e Dupont vengono aperte in prossimità di grandi bacini. Nel caso di Trissino addirittura nei pressi di una falda acquifera, la seconda più grande d’Europa. Per conferire ai materiali la caratteristica di essere assolutamente impermeabili, si utilizzano molecole chimiche, scoperte e messe a punto proprio in quei centri di ricerca, del Veneto e della Virginia: i PFC, composti poli e perfluorati, il cui utilizzo è diffuso in tutto il mondo, anzi la ricerca ha scoperto che la famiglia dei PFC può essere usata anche in un’innumerevole serie di prodotti di uso comune, dalle padelle antiaderenti alle schiume antincendio.
Solo negli anni Duemila, gli effetti di queste sostanze chimiche cominciano a essere scoperti. Le falde acquifere prossime agli stabilimenti produttivi sono, infatti, inquinate e la popolazione servita dagli acquedotti riforniti da tali falde scopre gli effetti tremendi dell’inquinamento: le molecole chimiche si depositano negli organi e sono inferenti endocrini, alterano il metabolismo, si passano dalla madre al feto, producono sterilità e tumori.
In Veneto si definisce una zona rossa, come zona a elevato rischio di inquinamento e, grazie alla mobilitazione dei Comitati NO PFAS, prende avvio uno screening su vasta scala. Si comincia, così, a lavorare per rifornire di acqua non contaminata tutta l’area. Negli Stati Uniti, la Dupont viene condannata tre volte a risarcire i danneggiati – l’ultimo indennizzo a favore di un uomo colpito dal cancro ai testicoli è di 10.5 milioni di dollari –, Greenpeace lancia la campagna Detox Outdoor che costringe la Gore Fabrics, il produttore di GoreTex, ad annunciare pubblicamente il suo impegno a eliminare i PFC dai propri prodotti. Ma non era possibile pensarci prima? Non era possibile, cioè, avviare una ricerca che mettesse al primo posto la sostenibilità ambientale, la salute delle persone, il rifiuto di qualsiasi tossicità nelle lavorazioni e nei prodotti finali? Sì, lo era. Lo è.
Lo ha fatto Michele Ruffin. Lo fa questo imprenditore veneto, che abita e lavora a Montagnana, in provincia di Padova, in piena zona rossa, che ha cominciato la sua ricerca all’insegna della sostenibilità molto prima che scattasse l’allarme PFAS perché in quel valore ci ha sempre creduto. Lo abbiamo intervistato.
Qual è il settore produttivo nel quale Lei è attivo e da quanto tempo?
«Ho fondato la mia azienda a Montagnana, dove abito, in piena zona critica per inquinamento. Okinawa – questo il nome – da più di 30 anni progetta e produce accessori personalizzati per la moda, per conto dei più rinomati marchi del settore. Si tratta perlopiù di articoli in pelle. Nel corso degli anni, ho fatto sì che Okinawa perfezionasse e ampliasse la gamma delle lavorazioni e dei trattamenti, in questo modo sono arrivato a offrire ai miei clienti prodotti realizzati con le tecnologie più diverse e moderne, tutti rigorosamente Made in Italy e sempre di più allineati al valore del rispetto dell’ambiente che guida tutte la mia vita e ispira le mie riflessioni più profonde. Ho iniziato queste ricerche molto prima che le denunce e le inchieste rilevassero al pubblico quali pericoli erano insiti in un certo modo di produrre».
Quali ricerche ha condotto e conduce per garantire una produzione all’insegna della sostenibilità?
«Credo sia opportuno inquadrare la questione con una premessa. L’inquinamento delle falde acquifere italiane causato da PFC, PFOA e PFAS, in particolare in regioni come il Veneto e la Toscana, è noto da diversi anni: Greenpeace, tra i primi, ha cominciato a evidenziare fin dal 2016 che l’uso di queste sostanze non solo inquina l’ambiente circostante alle zone di produzione ma può avere gravi effetti sulla salute di chi entra in contatto con le acque di scarico o con prodotti che possono rilasciare molecole tossiche nell’uso quotidiano. Si stima che nel solo Veneto circa 350mila persone abbiano nel sangue una concentrazione elevata e pericolosa di queste sostanze. Perfino recenti rilevazioni effettuate dalla Regione Veneto alla foce del fiume Po hanno dimostrato che in quelle acque c’è un’elevata presenza di suddetti agenti inquinanti. A questo punto l’industria tessile e l’industria conciaria non hanno più alternative: devono in tempi brevissimi allinearsi alle normative europee che richiedono una drastica riduzione o totale eliminazione dell’utilizzo di sostanze contenenti tali componenti chimici. E posso garantire che identificare soluzioni adatte non è stato assolutamente un compito facile. Tuttavia, ci siamo riusciti: il rilevante investimento di ricerca che Okinawa e Smart Materials hanno concentrato da anni sulle soluzioni sostenibili per la pelletteria e il tessile, anche in collaborazione con specialisti internazionali del settore, ha dato i suoi frutti. Siamo oggi in grado di offrire a finissaggi tessili e concerie due prodotti capaci di garantire la massima protezione a pelli e tessuti senza contenere alcuno di questi prodotti pericolosi nella loro formulazione. Si tratta di una gamma che, seguendo nel nome il filone di altre soluzioni innovative da noi già proposte, come Jacroki o Washoki, prende il nome di Nanooki. Il suffisso nano ha una spiegazione specifica, legata alle caratteristiche dei due preparati che fanno parte di questa gamma. Infatti, essi depongono sulla superficie un nanostrato di uno spessore pari a 150 nanometri (1/500 di capello umano!) di puro biossido di silicio (il principale componente del vetro, che non ha alcuna controindicazione) che, senza modificare in alcun modo né la mano né l’aspetto del tessuto o del pellame, garantisce una superiore idro- e oleo- repellenza, il che significa più in generale una forte repellenza allo sporco e un’estrema facilità di mantenimento della pulizia. Nanooki Textile è un prodotto a base acqua per il trattamento di tessuti e nabuk, talmente ecosostenibile e biocompatibile da non far parte neanche dei preparati inclusi nella restrittiva normativa europea REACH. E per le concerie ha un vantaggio in più: ha un COV pari a zero. Abbiamo poi sviluppato Nanooki Leather per le superfici conciarie sulle quali ritenevamo che l’effetto di protezione potesse essere ulteriormente migliorato, come ad esempio pelli resinate, crust e simili. Per garantire un assorbimento ancora più profondo del preparato sulla superficie, Nanooki Leather è a base di etanolo, il che gli consente di disporre uno strato di biossido di silicio ancora più efficace.
Analisi approfondite, effettuate da laboratori indipendenti e da università, hanno confermato che nella formulazione di Nanooki Textile non sono presenti né PFC, né PFOA né PFAS: si tratta quindi della risposta perfetta – e al momento giusto! – alle nuove esigenze che stabilimenti di finissaggio tessile e aziende conciarie si trovano ad affrontare. Abbiamo presentato questi prodotti alla fiera Première Vision di Parigi a settembre 2018 e, come ci aspettavamo, diversi top brand internazionali hanno subito mostrato il loro interesse. Grandi nomi sono già in fase avanzata di test – con ottimi risultati, ovviamente – per poter confermare nei confronti dei propri consumatori l’attenzione che prestano alla loro salute, preservando però un elevato livello di protezione per i propri (costosi!) prodotti. Sappiamo già che, nei prossimi mesi, avremo molto da fare. Ma siamo prontissimi!»
Per Michele Ruffin e per la Sua azienda la sostenibilità è un valore. Perché?
«La rivoluzione ecologica non partirà certamente da decisioni politiche perché chi governa viene eletto proprio per mantenere lo status quo. Non sarà scientifica, perché gli scienziati ancora non sanno come sostituire con altre fonti energetiche i novantacinque milioni di barili di petrolio che l’uomo consuma ogni giorno. E non sarà neanche economica finché non sarà seriamente rimesso in discussione il valore della crescita perpetua. Per cambiare il mondo serve una trasformazione ben più profonda delle nostre motivazioni interiori e dei nostri valori. La società occidentale ha bisogno di una sorta di conversione. Sono perciò convinto che non ci sarà una rivoluzione ecologica senza una rivoluzione spirituale. Ecco, la mia conversione è credere nella sostenibilità come valore assoluto, personale, da perseguire anche a livello imprenditoriale».
È possibile conciliare l’essere imprenditore e avere un valore come quello della sostenibilità ambientale?
«Sono convinto che sia possibile perché la mia storia lo dimostra. Ma è una scelta impegnativa, che non segue la logica del profitto a breve termine. In sostanza, io sento il bisogno profondo di spendermi per la sostenibilità, a partire dall’uso di un’auto elettrica – ce l’ho da cinque anni – per arrivare all’ostinazione con cui ho cercato di risolvere il problema di trattare le pelli in maniera sostenibile. Il fatto è che a me viene ormai facile ragionare, pensare e progettare in ottica sostenibile, perché ne sento il bisogno, mi viene dall’anima».
Secondo Lei, la sostenibilità è solo un vincolo o può rappresentare una opportunità?
«È senza dubbio un’opportunità, perché consente di proporre prodotti di qualità e sostenibili e di essere, quindi, competitivi rispetto ai concorrenti, non sul prezzo, ma sul valore. A condizione però di essere trasparenti e di agire con convinzione ed eticità. Resto perplesso quando vedo che le grandi aziende scelgono di investire in sostenibilità per tutelarsi da eventuali danni di immagine derivanti dall’opera massiva di sensibilizzazione operata dai social. Io ho preferito interagire con i tecnici fino a quando non ho trovato una soluzione. E non mi sono accontentato: mi sono rivolto a centri di ricerca che usano strumenti di controllo con scala maggiore, per avere la certezza che non venivano inquinate le acque reflue, derivanti dai processi di lavorazione del prodotto. Il fatto è che la ricerca ha un costo, che spesso i grandi brand non intendono sostenere. Per questo ho deciso, una volta acquisito e sedimentato un know how specifico e di avanguardia, e avendo tutte le competenze per produrre, di offrire una gamma di prodotti all’insegna della sostenibilità».