Brucia l’assenza di Michael Cimino. Non solo per la sua morte fisica, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario (era il 2 luglio 2016), ma soprattutto per la sua morte artistica, decretata da un sistema produttivo che non gli consentì più di realizzare film dal 1996, anno del suo ultimo lavoro, Sunchaser (Verso il sole, in italiano). Prima di quello, comunque, le sue opere si erano già rarefatte nel tempo, visto che il lavoro precedente, Ore disperate, risaliva al 1990.
Il nome di Michael Cimino viene fatalmente legato all’enorme successo de Il cacciatore – vincitore di 5 Premi Oscar nel 1979, tra cui miglior film e regia –, accusato da certa critica dell’epoca di essere reazionario, e al disastro economico de I cancelli del cielo, epopea western incriminata, da opinionisti evidentemente di segno opposto, di fare il filo al marxismo. Come molti sapranno, Il cacciatore fu aspramente criticato per la rappresentazione negativa che si dava dei Viet Cong – nella celebre scena della roulette russa, ad esempio –, in un periodo in cui, nell’immaginario contestatario di quegli anni, il ruolo del cattivo nel conflitto poteva essere ormai solo degli americani. In realtà, le atrocità furono commesse da una parte e dall’altra e a Cimino non interessava entrare nei retroscena politici della guerra né dare ragione a una fazione, ma soltanto rappresentare un momento traumatico nella vita di tre amici che si trovano, loro malgrado, a vivere un’esperienza terrificante che li segnerà per sempre.
I cancelli del cielo, invece, raccontava della cosiddetta battaglia della contea di Johnson nel Wyoming, vergognosa pagina di storia degli USA: nel 1890, al culmine di una disputa tra ricchi proprietari terrieri e immigrati slavi, il governo autorizzò l’uso della forza che si risolse in un vero e proprio massacro a scapito della comunità europea. Evidentemente, ancora non era gradito l’atto di rimestare nella memoria collettiva della nazione. Complice la lunghissima durata (219 minuti), il film fu una catastrofe economica: con budget iniziale di 7 milioni di dollari, lievitato poi a 44, ne incassò soltanto 3.
A Cimino, quindi, viene attribuita la responsabilità, oltre che del fallimento della United Artists che aveva finanziato il progetto, anche della fine del potere dei registi a Hollywood. Per la realizzazione de I cancelli del cielo, infatti, nel 1980 la casa di produzione gli aveva dato carta bianca, ma l’opera si rivelò un totale fallimento al botteghino. La leggenda volle che dopo quel disastro l’industria cinematografica non avesse più dato autonomia ad alcun cineasta. Non andò proprio così, ma purtroppo il capolavoro del regista, tagliato, rimontato e rimaneggiato più volte in varie versioni, assurse allo status di cult maledetto.
Superata – per fortuna – l’empasse ideologica della critica del tempo, oggi Cimino viene ricordato come uno dei maestri di quella New Hollywood che, insieme a Scorsese, Coppola, Spielberg, Lucas e altri, negli anni Settanta ridefinì il ruolo dell’autore nell’industria cinematografica americana. I cancelli del cielo, in occasione della proiezione del Director’s cut restaurato al Festival di Venezia nel 2012, è stato definito dal Presidente Alberto Barbera un capolavoro moderno, il cui rimontaggio, dopo l’insuccesso delle proiezioni, per la stampa è stato una delle più grandi ingiustizie della storia del cinema.
Forse non tutti ricordano il suo esordio, sotto l’egida di Clint Eastwood, produttore che gli affidò la regia nel 1974 del bellissimo Thunderbolt and Lightfoot (in italiano Una calibro 20 per lo specialista, titolo che voleva stupidamente cavalcare il successo di Callaghan), buddy-movie on the road che racconta la storia dell’amicizia tra un rapinatore sul viale del tramonto soprannominato l’Artigliere (Eastwood), e un giovane balordo dal cuore d’oro che si fa chiamare Caribu (in originale Lightfoot), interpretato da un giovanissimo Jeff Bridges, il quale, incantato dalle gesta leggendarie del ladro, diventa suo amico e allievo. Accompagnato da un’amara ironia e un disincanto, figli dello scetticismo di un’intera nazione che cominciava a fare i conti con i limiti del sogno americano, Thunderbolt and Lightfoot racchiudeva già in sé alcuni dei temi cari a Cimino, in primis la celebrazione dell’amicizia virile e cameratesca, fondata su un rispetto e una stima che vanno guadagnati sul campo. Inoltre, era già presente quello spirito titanico che avrebbe caratterizzato tutti i personaggi del cineasta, spinti ossessivamente a portare fino in fondo le loro convinzioni e il loro modo di essere, trovando così un senso alle loro esistenze in un mondo ormai perduto tra compromessi di comodo e connivenze colpevoli.
Tale spirito che, volendolo proprio incasellare, potremmo definire in parte anarchico-individualista, analogo a quello di molti protagonisti eastwoodiani ma con toni decisamente più carichi e disperati, avrebbe permeato il resto della produzione di Cimino (pensiamo anche al capitano di polizia Stanley White, interpretato da un furioso Mickey Rourke, de L’anno del dragone, pellicola assolutamente da rivalutare). Per il regista, questa predisposizione d’animo così estrema era l’unica risposta possibile a un periodo buio della storia degli Stati Uniti nel quale le certezze stavano sgretolandosi una a una: gli omicidi traumatici dei due fratelli Kennedy e di Martin Luher King, il disastro in Vietnam, il caso Watergate che affossò definitivamente la fiducia nelle istituzioni. Cimino si ritrovò così, non per scelta ideologica ma per temperamento emotivo, a essere il cantore disperato, crudele e al tempo stesso dolce del tramonto del sogno americano, mettendo in scena elegie crepuscolari che raccontavano di personaggi ossessionati, pazzi idealisti – come viene appellato lo stesso Mike da Nick ne Il cacciatore –, gettati in situazioni estreme, costretti a scelte morali molto difficili e dalle conseguenze drammatiche.
Di quest’ultimo film (1978) è stato detto tutto: la storia dei tre amici, Mike (Robert De Niro), Nick (Christopher Walken) e Steve (John Savage), che partono per il Vietnam dove perdono la loro innocenza, divenne paradigmatica della perdita delle illusioni di un’intera nazione. La passione della caccia e quindi la metafora dell’uccisione del cervo, poco prima della partenza per la guerra, non è proprio il caso di spiegarla qui. Il film si divide in tre lunghi atti: la vita normale prima del Vietnam, poi l’orrore e infine il traumatico e impossibile ritorno a casa nella provincia americana con le industrie del carbone di Clairton, paesino della Pennsylvania, in cui lavorano i protagonisti, tutti della comunità polacca del luogo. Qui i personaggi vivono significativi momenti di ritualità collettiva: la famosa scena del bar in cui i tre amici avvinazzati – più altri tre tra cui l’irritante Stan interpretato dall’indimenticabile e compianto John Cazale – cantano Can’t take my eyes off you, forse una delle più efficaci e commoventi rappresentazioni di quell’amicizia cameratesca che caratterizza la giovinezza; e il matrimonio etnico di Steve (John Savage) e Angela con balli, canti e usi tipici (l’idea del calice da far bere agli sposi nel corso della cerimonia senza farne versare una goccia, pena un’enorme sfortuna, fu rubata dalle nozze siriane). La sola scena del matrimonio durava ben 40 minuti, decisamente troppo per i produttori che cercarono di tagliarla a 10. Ma Cimino la sfangò boicottando la proiezione di prova in cui si testavano gli spettatori con una versione abbreviata del film: grazie a un proiezionista connivente, la pellicola si ruppe, così la riproduzione si interruppe per molto tempo rendendo la visione dell’opera meno digeribile al pubblico che premiò l’edizione lunga che proiettata poi in un altro test.
Al di là degli aneddoti, l’amore che Cimino riversava nelle scene dei grandi rituali collettivi di festa è evidente anche nel successivo I cancelli del cielo dove la comunità di slavi immigrati nella contea di Johnson (Wyoming), si dà alle danze sfrenate nel corso dei festeggiamenti nella grande pista da ballo chiamata appunto Heaven’s Gate. Tali scene non erano certamente fini a se stesse, ma Cimino le utilizzava per definire le coordinate emotive dei personaggi e i relativi equilibri psicologici che si venivano a creare tra loro. E poi per restituire il tono, le atmosfere e le abitudini di una particolare comunità che si voleva rappresentare. Come sarebbe altrimenti possibile penetrare nella mentalità collettiva di un gruppo se non tramite le grandi ritualità che la definiscono? Lo sguardo di Cimino si faceva così antropologico.
Questo non deve far pensare che nel corso dei grandi eventi si smarrissero i personaggi, anzi. Il regista poneva la stessa attenzione agli episodi intimi dei protagonisti così come alle grandiose scene di massa. Sul suo set si dava largo spazio all’improvvisazione e il lavoro con gli attori era un processo lungo e stimolante, anche se estenuante, che cominciava nelle prove e continuava durante le riprese. Frutto di quest’enorme fatica erano le alchimie, palpabili su schermo, che si creavano tra gli attori e quindi tra i personaggi. Le scene dei film non sono soltanto finzione, ma pezzi di vita restituiti nella loro autenticità. Tale forza si riconosce nei momenti più intimi tra i personaggi, come per esempio nel soffermarsi imbarazzato tra Nate Champion (Christopher Walken) ed Ella Watson (Isabelle Huppert) in una scena di Heaven’s gate: lui mostra alla donna che ama da sempre la sua catapecchia faticosamente arredata con fogli di giornale al posto della carta da parati e all’improvviso, con un gesto impacciato, si ricorda di pulire il tavolo sporco di cibo davanti a lei. Oppure, ancora l’intimità complice, giocosa e disinibita del primo incontro nel film tra Ella, divisa tra due amori, e James Averill (Kris Kristofferson). Per non parlare di tutti i momenti indimenticabili, di dolcezza e sensualità trattenuta, carica di sensi di colpa, tra De Niro e Meryl Streep ne Il cacciatore.
Altra grande qualità di Cimino, che lo pone a livello di un John Ford, è l’indiscutibile talento visivo: sapeva architettare grandi scene di massa e comporre inquadrature utilizzando i paesaggi naturali come tavolozze emotive in cui riusciva a rispecchiare le più contrastanti e intense emozioni umane. Infine, il guizzo geniale nel montaggio. Ne Il cacciatore, al termine del primo atto, i sei amici si riuniscono per l’ultima volta nel bar, prima che tre di loro partano per il Vietnam. Il paffuto John – interpretato da George Dzundza, grande caratterista di migliaia di film – suona al piano una melodia malinconica, mentre tutti gli altri si immergono cupi nei loro pensieri sul futuro imminente. La macchina da presa si muove da un personaggio all’altro, indugiando sui loro volti immersi nel buio, facendo largo uso di inquadrature grandangolari caratterizzate da impossibili profondità di campo, cioè che permettono di tenere a fuoco contemporaneamente più soggetti posti a distanze diverse dall’obiettivo. Con uno stacco improvviso, si passa al fumo, alle fiamme e al rumore delle pale degli elicotteri. Niente addestramento, viaggi, nessuna introduzione all’ambiente del conflitto bellico. Con uno stacco ellittico Cimino ci porta direttamente in medias res, nell’inferno del Vietnam.
Ciò che provoca infinita ammirazione in chi scrive è la totale fiducia di Cimino nella forza delle immagini, dei personaggi e delle storie. Nelle sue opere è assente la paura di lasciarsi andare ai propri ritmi per raccontare orizzonti emotivi di un’intensità lacerante, sia interni che esterni. I tempi di lettura delle immagini oggi corrono velocissimi e non siamo più abituati a inquadrature che durano più di qualche manciata di fotogrammi o a scene che si prolungano solo per raccontare un’esitazione, uno sguardo. Il suo modo, titanico e senza compromessi, di fare cinema quindi forse non è più proponibile, ma manca terribilmente. Consiglio a chiunque, ove mai ce ne fosse occasione, di recuperare le sue opere su grande schermo, perché l’orchestrazione visiva, potente e unica di Cimino ha il respiro troppo grande per stare dentro gli angusti confini di un tablet, uno smartphone o un televisore casalingo, per quanti pollici possa avere.
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